Roberto Guerra
INTERVISTA PER BEPPE
SALVIA a Mauro Biuzzi nel 30° ANNIVERSARIO della morte (1985-2015)
Dicembre
2014
D1- Mauro Biuzzi,
Beppe Salvia, alla ricerca di un grande poeta “perduto”?
R1- Mauro Biuzzi Ecco,
qui ti vorrei rispondere anche alla terza domanda, immettendo i due contenuti
in una risposta a senso unico: il modo in cui Beppe ci indicò il nostro destino
e la nostra inerzia nel capire e cambiare, il suo vaticinio incompreso...
"una fila di bottoni sul panciotto è tale. un cielo è un cielo. disinteressati
alla fuga prospettica." (idea cinese,
1987). Ho sempre sostenuto che Beppe non fu profeta ma oggi preciso che
certamente fu Vate.
A proposito della "finziocrazia" dominante, devo
premettere che questa mia "anti-prospettiva di verità e di amore" per
Beppe è costata dieci anni fa la vergognosa esclusione dei miei due scritti su
di lui (Manifesto di Piazza Pio XI
del 1990 e La Leggenda Aurea del
2005) dalle sue bibliografie ufficiali, pubblicate nei vari volumi che uscirono
nel ventennale della morte. Libri nei quali peraltro stava scritto a proposito della
rivista Braci, alla cui fondazione
partecipammo a vent'anni: "I giovani poeti negli anni Ottanta si
incontrarono nell'ambiente universitario della Facoltà di Lettere, o ancor
prima, sono legati da rapporti di amicizia che risalgono all'adolescenza o alla
scuola, come quello fra Claudio Damiani e Giuseppe Salvatori, fra Beppe Salvia
e Mauro Biuzzi." (F. Giacomozzi, Campo
di battaglia, 2005). E pure scrivevano che Beppe mi aveva chiesto di lavorare
alla copertina, alle immagini e all'impaginazione del suo primo libro, Elemosine Eleusine, lavoro inedito
poiché interrotto dal suo suicidio.
Ecco, da allora non mi stanco di ripetere,
senza alcun pudore nichilista, che il suicidio di Beppe è la pietra di inciampo
di tutte le analisi letterarie su di lui, che non riescono in alcun modo a
valutare questa morte cristologicamente, ovvero in maniera consequenziale alla
sua vita poetica, al nostro Urbi et Orbi.
Ecco, romanamente. Antropologicamente. Nemmeno ci provano a farlo, queste
analisi pseudo-testuali, chiuse come sono nei linguaggi di genere, nella resa
al nichilismo linguistico, al porno per
il porno. Analisi "esistenziali" che invece si producono ormai a iosa nei mercati dove si mitizzano, a
distanza di sicurezza, la morte di Pasolini o di Modigliani o di Rimbaud o di
Anna Frank.
Questo capita perché il suicidio di Beppe è ancora un gesto di
vitalità insostenibile per l'esangue e pavida generazione terminale a cui
appartenne: inarrivabile, incomprensibile. E anche perché quel suicidio fu un
suo inequivocabile e precoce sottrarsi a quel mercato delle pulci nel quale si
sarebbe trasformata, dagli anni novanta, la catena che alimenta la cultura in
Italia e nel mondo, a seguito dello sterminio sistematico dei pochi grandi
predatori a favore della proliferazione dei tanti piccoli specialisti. Negli
anni ottanta non bastava più non partecipare, come Beppe fece, a quel triste
dopolavoro detto, con umorismo involontario, "Festival dei Poeti".
Ecco,
va detto chiaramente che per non cibarsi a vita nella ciotola del canile della Casa delle Letterature, Beppe dovette
prevedere il suicidio. Annunciato, per l'esattezza, nel suo ultimo
travestimento, il servo corvino del conte Mario: "Il valletto si era
suicidato." (Un uomo buono le sue
dolci colpe, 1985). A
trent'anni dalla sua morte, se facendo zapping ci si sofferma sulle chiacchiere
rosa o anche solo sulle facce rosa dei "giovani" manager cresciuti a
tartine, dai bar dei musei fino ai ghetti dorati delle tv tematiche, il suo
suicidio diventa precisa chiave stilistica o di poetica, come il seppuku dei Samurai che nel 1945 non
accettarono la resa del Giappone e un Ordine che non fosse fondato
sull'Immortalità del corpo. "un cielo è un cielo" significa che non
si diventa uomini passando la vita a lucidare i pantaloni alle letture
pubbliche o a consumare le suole sui red
carpet delle Expò Universali. Bensì che si deve "redimere la terra e
fondare le città" (Benito Mussolini, Pino Pascali e Pier Paolo Pasolini su
Sabaudia).
Ritardare ancora questa interpretazione integrale e dissidente del
caso di Beppe, magari con un mea culpa
o un'abiura, è a mio avviso un atto di alto tradimento del patrimonio culturale
italiano, del quale Beppe è l'espressione più recente. Interpretazione che se
ancora omessa omertosamente merita la degradazione sul campo per quelli che,
come me, vi furono testimoni.
"Non è semplice chiedere questo; è
come sedurre il destino, ma nell'opera è l'opera. Il merito e il valore ce ne
disinteressiamo." (Il lume accanto
allo scrittoio, 1980). E insieme: "Se contro il suicidio l'Eterno non avesse elevato la
sua legge." (W. Shakespeare, Amleto,
1600). Il vaticinio di Beppe, come una maledizione, si è puntualmente
realizzato se si guarda alla definitiva sterilità creativa alla quale ha
condotto il cosiddetto "sistema della cultura" dominato dal Mercato
(dove l'opera non è altro che un equivalente del suo valore di scambio
corrente), nel quadro della generale recessione della civiltà occidentale
dominata dalla cultura finanziaria: lo sviluppo senza progresso.
Offensiva recessiva
che non a caso ha portato alla fame la nostra terra d'origine universale, la
Grecia. Spinto al suicidio centinaia di piccoli imprenditori, discendenti di quegli
umanisti fiorentini che hanno inventato l'impresa, in Italia (in origine fu
Raul Gardini, 1993). Ha condotto allo sterminio e alla macelleria
gangsteristica l'idea stessa di unità delle civiltà mediterranee tanto cara a
Carl Gustav Jung e alla nozione di "inconscio collettivo", che
secondo lui era nato dalle profondità di questo caldo mare interno, dal quale
infatti rinacque Venere secondo Botticelli. Ha stuprato la Venere Urania della
nostra tradizione: ibernandola nella Paolina Borghese secondo Canova, indemoniandola a Parigi secondo Modigliani
(per colpa delle Damigelle di Avignone
secondo Picasso), divizzandola a Roma grazie all'uso di Fontana di Trevi come un
bidè postmodern italoamericano,
secondo Fellini, il Toulouse-Lautrec
de noantri.
Da lì alla Moana secondo Schicchi il passo è breve, ma andava stoppato.
Ed io l'ho fatto. E solo grazie a Beppe. In breve, dunque, nell'occasione di
questo trentennale della morte di Beppe Salvia posso dare la notizia che i
disastri prodotti dall'attuale "degrado finziocratico mondiale" si
erano manifestati per la prima volta, ben peggio di un virus Ebola, a danno di
un piccolo gruppo di giovani sodali italiani che non distinguevano tra vita ed
arte, e le cui alterne vicende si conclusero impietosamente col suicidio di
Beppe, al quartiere Aurelio di Roma, nel 1985.
Noi siamo stati infatti l'ultimo
gruppo di giovani che poterono legare la propria formazione ai luoghi e alle
strade della città di Roma (prima della globalizzazione, dei non-luoghi, del
territorio e di Internet, che ha spostato nei social network tutte le
relazioni). Giovani che, con un biglietto di sola andata, si innalzarono dalle
nuove periferie fino alle piazze monumentali, prima che Roma tornasse ad essere
la sede della solita corte barocca che la occupa da oltre due millenni, un
cartellone pubblicitario al Circo Massimo sotto il quale mendicanti di tutte le
razze litigano per strapparsi un posto riscaldato dai riflettori, una nuova
frontiera amalfitana zeppa di camerieri al solito servizio delle botteghe del
Gran Tour, del Premio Oscar, del Papa straniero e dei figliastri del Marchese
del Grillo. Cristo è sempre fermo a Fiumicino, dalla madre di Agostino.
D2- Mauro, più nello specifico, secondo te,
quale la cifra letteraria del poeta?
R2- Mauro Biuzzi La
cifra di Beppe è lo zero e la sua lettera è la X, in modo che se sovrapponi
questi due segni di stasi viene fuori il logo della ruota, del movimento. Se
poi ruoti questo logo di novanta gradi ti diventa una croce solare, il simbolo
cristiano dell'Ordine Nuovo, il cui contenuto tradizionale e sacrificale si
addice a Beppe (cfr. Il portatore di
fuoco), a me stesso e perfino alla sottocultura punk che frequentavamo con
spensierata leggerezza alla fine degli anni settanta. Ma questo accostamento
blasfemo lo faccio anche con la speranza di far venire le coliche agli esegeti
di Beppe, mercanti nel suo tempio e mendicanti fuori.
Nel 1990 questa cifra,
vagamente riferibile ad un manifesto del gruppo Ordine Nuovo, la misi anche
sulla copertina di un numero della mia rivista Arca.Propaganda contenente il
succitato Manifesto di Piazza Pio XI,
dedicato al quinto anniversario della morte di Beppe
(http://www.beppesalvia.it/Biuzzisalvia/01.html). E fui perciò apostrofato come
fascista (quando ancora l'antisemitismo non era diventato un prodotto buono a
far alzare l'audience nei salotti tv,
vedi Augias vs Buttafuoco) da qualche anima bella della mejo gioventù liberale
romana, a corto di argomenti. Antesignani della "casta", come li
definii per primo nel 2005 (cfr. La
Leggenda Aurea). Fascista a me, "antipolitico" per antonomasia,
con un nonno anarchico che ha fondato il Partito d'Azione e una zia che ha
ricevuto la Croce di Ferro per meriti nella Resistenza.
D3-
Biuzzi, la poesia-vita oggi ancora possibile nel degrado finziocratico
mondiale?
R3- Mauro Biuzzi Ho
impostato questa terza risposta in apertura d'intervista. Semplificando, ho
detto che il suicidio di Beppe è stato la formalizzazione vitale e mortale
della sua resistenza al degrado di cui parli. Così come il martirio è stato,
nella cultura cristiana che precedette la secolarizzazione, il gradino più alto
di una serie di azioni politico-culturali consequenziali. Che quello di Beppe
sia stato un modello di anti-sistema lo dimostra anche il fatto che in questi
trent'anni quasi tutti gli scrittori più importanti tra i fondatori della
rivista Braci non hanno pubblicato
altro libro di poesie che quello di esordio, sospendendo da allora la loro
attività editoriale
(per esempio Gino Scartaghiande, Giuliano Goroni, Paolo Del Colle, Giselda
Pontesilli).
Caso più unico che
raro nella cultura iper-alfabetizzante del novecento e in controtendenza
rispetto alla conseguente ri-produttività
conigliesca tipica della cultura-mercato degli ultimi trent'anni. Chi più chi
meno, in Braci ci si liberò a
fatica, soprattutto grazie a Beppe, dal prototipo di "intellettuale del
'900" che, fino al 1968, aveva contribuito
a costruire le egemonie culturali logocentriche delle masse logorroiche, sul
modello e i valori purofilosofici
dell'Illuminismo e dei Diritti umani.
La nostra mission era fare fuori il vampiro di professione, il famigerato
"intellettuale organico al partito di massa", il collaborazionista
cattocomunista, soggetto che oggi si è mutato in un esercito di vedettes, opinionisti tv ed esperti di
marketing col solo obiettivo di far vincere il proprio padrone di turno
(partito o editore o produttore), si tratti di vendere cultura, programmi
politici, format televisivi, armi, alimenti, appartamenti, infrastrutture, sesso,
gossip, titoli di borsa, abbigliamento, diritti umani, viaggi, farmaci e altro Varietà.
Insomma, una cavalletta geo-politica, esperta di import/export di Democrazia
ovvero di Desiderio.
Sarei tentato di dire che in Braci si affermò l'idea che l'unica forma culturale che poteva
opporsi a questo Pensiero Unico del mondialismo mercantile di massa, che aliena
ed affama tutto il pianeta, era quella di un Ecumene di memoria
classico-cristiana. Personalmente la conferma mi venne dall'osservazione
dell'America Latina negli ultimi anni del '900, da quel rinascimento
bolivariano che ebbe la sua eccellenza nel nazionalismo sociale del presidente
venezuelano Hugo Chavez, nel suo tentativo di unificazione delle nazioni
autoctone del settentrione sudamericano, nella sua teoria di un socialismo del
cuore nazionale e popolare.
D'altronde nello scenario di quei conflitti tra
realtà nazionali e neo-imperialismo coloniale si erano già formate la figura e
il metodo dell'unico uomo che riuscì a unificare il nostro paese, Giuseppe
Garibaldi, modello di stratega italiano mai più eguagliato nella nostra storia
nazionale e bollato dal Marx londinese alla stregua di un buffone. Altro che il
Che Guevara dei sessantottini borghesi, altro che Cuba libre... Sotto quella bandiera, nel mio piccolo detti l'ultima
spallata mediatica alla Repubblica delle Tangenti, tentando l'impresa di una
politica carismatica e terapeutica nelle elezioni politiche italiane del 1992,
quando con grande successo di pubblico portai nell'ultima campagna elettorale
della Prima Repubblica il Partito
dell'Amore fondato con l'amica Moana Pozzi, con una teoria politica
cristiano-dionisiaca e filo-mediterranea (anti-atlantista e anti-europeista).
Così sono riuscito di nuovo a far manifestare Venere in Italia, Venere in carne
e ossa, davanti all'Altare della Patria a Roma (http://www.partitodellamore.it/diva_patria/amministrative/003/i01.html).
STOP. Fine dei giochi. Se per Beppe, se per me per un altro verso, è stato
possibile fare cose ormai ritenute impossibili, così sarà possibile ancora per
altri, anche in questo momento.
D4- Mauro
Biuzzi, per l'anniversario del 2015, progetti in preparazione?
Testimonianza opposta alla vincente teoria dei non-luoghi, sulla quale si fonda lo sterminio nichilistico delle origini culturali delle popolazioni che il mondialismo rende funzionale alla deportazione di masse aviotrasportate sullo scacchiere delle nuove colonizzazioni, Testamento semplicemente documenta la morte del Gran Tour e l'inizio di un vero pellegrinaggio, di un giro delle sette chiese nei luoghi poetici e urbani della passione terrena mia e di Beppe. In tal modo superando e ricentrando anche i modi della deriva situazionista, a suo modo interstiziale e decadente, territoriale e retro-avanguardistica insomma.
Su quell'epigrafe monumentale di due ore e mezzo, si basò la tesi di laurea in Storia della Comunicazione di Giovanna Buco su Beppe (https://www.yumpu.com/it/document/view/15712257/universita-degli-studi-della-tuscia-facolta-di-lingue-beppe-salvia). L'audiovisivo che girammo in digitale era destinato alla sola visione nel web, dove continua a poter essere visto nella totale promiscuità che vige in quei nuovi sotterranei dell'immaginario del terzo millennio, sfuggendo così alle camere ardenti culturali alle quali Beppe si era già sottratto keatsianamente.
Mi è stato chiesto di creare, con la proiezione di Testamento, una serata celebrativa del trentennale della morte di Beppe nel più importante cineclub storico di Roma, spazio collocato al confine tiberino dell'Aurelio, dove ad un giovane volenteroso nei primi anni settanta bastavano poche fermate del bus 98 per poter scoprire grandi maestri di tutto il mondo (Michael Snow, Peter Kubelka, Steve Dwoskin, Stan Brakhage, Gregory Markopoulos, Mario Schifano). Sto valutando la possibilità di farlo senza snaturarne l'estetica e l'etica, insomma la forma complessa ma perfettamente compiuta di quel mio modesto contributo, a fronte della grandezza del tema.
*photo, opera di Mauro Biuzzi
IL POETA BEPPE SALVIA