Futurismo post Guggenheim di Luigi Tallarico

TRENTINO LIBERO


Trento, 8 settembre 2014. – di Luigi Tallarico *
Nello storico Guggenheim museum di New York, progettato dall'arch. Frank Lloyd Wright, è in svolgimento una articolata rassegna che raffigura il linguaggio, la comunicazione e la rappresentazione dello "spirito rivoluzionario di Filippo Tommaso Marinetti, padre del Futurismo" (1). La curatrice dell'esposizione, l'esperta di avanguardie europee Vivien M. Green, ha confermato che il futurismo, negli "svariati contesti della creatività dell'arte e del vivere quotidiano", ha mirato "alla Reconstruction the Universe" e attraverso l'esposizione di oltre 300 opere ha presentato all'America e al mondo gli artisti, comunicatori e designers della nostra avanguardia, tra cui F. T. Marinetti, Benedetta Cappa Marinetti e Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà ed Enrico Prampolini, Gino Severini, Antonio Sant'Elia, Luigi Russolo e Anton Giulio Bragaglia, nonché Fortunato Depero, il futurista vissuto a New York come designer pubblicitario a partire dal 1928 e del quale sono esposte 50 opere in Soho, a cura del "Center for Italian modern art".
Si segnala a tal proposito che le esposizioni sono state sponsorizzate dalla marca italiana Lavazza (e la notizia fa sperare, in questo momento di crisi, nella ripresa organizzativa e progettuale delle imprese italiane), ma soprattutto ci preme sottolineare che la scelta e le motivazioni del Guggenheim restituiscono ai futuristi un'autonomia e le diversità creative finora sottaciute, perfino dalle rassegne della Madrepatria, se si pensa che a Venezia (1986) il movimento marinettiano è stato considerato uno dei tanti "futurismi" superstiti di tutto il mondo, mentre a Roma , nella mostra del centenario, la koinè stessa della nostra avanguardia è stata sostituita dalla visione dei cubisti di oltralpe e dei cubo-futuristi internazionali del centre Pompidou di Parigi.
In effetti, la rassegna di New York, attraverso le affermazioni della curatrice Vivien M. Green, ha attestato che "sono queste cose", ossia il linguaggio multimediale e la visione del mondo, "che rendono il futurismo un'avanguardia veramente diversa rispetto alle altre avanguardie storiche", sono esse che ribadiscono come Marinetti (testualmente) "lanciando un manifesto, ha inventato un'avanguardia", una avantgarde insieme rivoluzionaria e costruttiva, aperta ai "fenomeni intuitivi" e ai "fenomeni dell'intelligenza logica", ai richiami dell'etica e della ideologia, della scienza e della tecnica (cfr. A. Saccoccio, introduzione al convegno internazionale sul Futurismo, Centro culturale "Elsa Morante", Roma 2013). Per confermare la concordantia oppositorum marinettiana, occorre richiamarci a Zarathustra, al quale Nietzsche fa dire che il creare nega il già fatto: "Io sono quella cosa – ribatte Zarathustra – che sempre deve superare se stessa".
Invero il futurismo, nella fase destruens, era consapevole che per creare occorreva negare e superare gli strumenti stilistici del "già stato", che offrivano e offrono (da noi, possiamo dire da sempre) un "classicismo di ritorno", per cui Marinetti col suo sonoro francese e il tono da Chanson de geste si è opposto a quella società legata al "piede di casa" e abituata a vivere di rendita del proprio passato, la cui gloria era peraltro spenta da oltre due secoli, nonché ad una classe dirigente incapace di credere in se stessa e nella "bellezza nuova" della modernità e della conquista. Del resto coloro che si erano abbandonati all'"immobilità pensosa, l'estasi e il sonno", diceva Marinetti, "non erano in condizione di affrontare l'absolument moderne e darsi un coraggio impraticato in quell'"Italietta", in cui lo stesso Presidente del Consiglio aveva considerato i futuristi combattenti "figli di famiglia più stupidi, dei quali non si sa cosa fare". Saranno quei "figli di famiglia", con Marinetti e D'Annunzio, Boccioni e Balla, a risvegliare nelle piazze la nuova Italia, nella consapevolezza che solo i giovani e gli "artisti, col fuoco sacro della loro sensibilità" e col "bisogno di sentirsi centro", avrebbero potuto "rinnovare socialmente, eticamente ed esteticamente la nazione e prepararla a vivere in un'epoca futurista".
Dall'ordine formale dell'esposizione, si deduce che il futurismo, con continuità creativa, ha intuito i passaggi che vanno dal "senso del quartiere" al "senso del mondo" e, in sintonia col nuovo pensiero italiano, ha evitato al movimento di non soccombere sotto il persistente "male francese", pervaso dal virtuosismo estetico. Senonchè il richiamo alle categorie ritenute estranee all'arte, ha indispettito il pittore e critico Albert Gleizes, il quale in "Cubismo e tradizione" (rivista "Montjon!", 1, Parigi 10 febbraio 1913, p. 3) ha sostenuto che "la pittura non deve vivere di elementi ad essa estranei, è bene che eviti compromessi con la letteratura, la musica, la filosofia, la scienza". Anche se a difendere Gleizes troviamo un Soffici "cubista-classico" disponibile a strapazzare le "gelide turpitudini delle Sibille e dei Profeti" del "paesano" Michelangelo (A. Soffici, "Cubismo e altre" in Lacerba, Einaudi, 1961), invero i cubisti restano legati alla visione estetica pitturocentrica e alla pratica del blocco chiaroscurale, ostili all'aria della medialità spaziale, non considerando che il futurismo, in quanto proteso verso la vita moderna, non può non nutrirsi delle diverse categorie disciplinari (cfr. G. De Turris, "Futurismo e fantascienza", Mondadori, 1980), in quanto correlate allo stesso pensiero e congiunte alla stessa vitalità (2). Ossia a quel pensiero e a quella vitalità che sono stati indispensabili alla scultura detta il "Camminatore" (da Boccioni intitolata "Forme uniche della continuità nello spazio"), in quanto il suo organismo "non è un fatto concluso e bloccato", ma "cammina", ha esclamato lo storico Roberto Longhi, anticipando quello che oggi sottolinea il Guggenheim e che cioè il futurismo è unità insieme plastica e dinamica e che rappresenta una diversità-novità in anticipo sul tempo a venire.
D'altra parte "l'infinito succedersi della vita" di una scultura, in un secolo così dinamico – ha osservato Boccioni – non si compie privilegiando uno dei momenti rappresentativi dell'estetica e della fenomenologia, bensì mantenendo la stessa complessità inventiva nella "continuità dello spazio". Infatti Boccioni, contrariamente alla "fissità" dell'avanguardia cubista, non blocca in se stesso l'oggetto, né "isola l'elemento che lo nutre: la vita", dal momento che la vita (la vie di cui parlava Rimbaud) è quella linfa creativa che interpreta il processo del divenire e l'energia del vivente. Aveva più volte affermato Marinetti che il futurismo rappresenta "l'amore del novo": è "la parola d'ordine di tutti gli inventori", ossia di quei tecnici ideatori, consapevoli che non si scopre... "il già fatto".
Oltretutto il "ritorno all'indietro" comporta l'identificazione di un ordine storico e un codice di lettura estranei all'intuizione e all'ideazione del moderno. Senza considerare che gli influssi decisivi della modernità, accumulati dalla tradizione che passa, non possono non accettare il passaggio, segnalato dal termine latino di traditio, se non vogliono subire quella "sosta" o, peggio, retromarcia che nega lo sviluppo del nuovo. A tal proposito occorre rilevare che il cubista Picasso, col suo "ritorno all'indietro", in quel classicismo che avrebbe dovuto continuare-superare il mito avanguardistico delle "Damigelle di Avignone", non ha confermato di avere interpretato un nuovo linguaggio dell'arte. Dopo pochi anni dall'esposizione nel salone d'Autunno del "segnacolo di tutte le avanguardie", la critica (T. Milton, "Picasso", Rusconi, 1981) ha dovuto constatare che il "nuovo approccio ai soggetti classici" ha indotto Picasso ad esprimere una semplice e inadeguata "innovazione di ordine formale", lasciando oltretutto in sospeso se il "ritorno all'indietro" sia dipeso dalla teoresi classicistica del cubismo o dalla abituale prassi trasformistica dell'autore che ha consentito il falso titolo di "Guernica" (L. Tallarico, "Guernica di Picasso, fu vera gloria?" in Secolo d'Italia del 16.1.2004).
In verità, la rassegna del Guggenheim ha riaperto il dibattito, non soltanto sulla continuità in sede storica della teoresi-prassi del movimento marinettiano (1909-1944), ma sull'attualità e modernità di un' avantgarde che - guardando al futuro, anche dopo la morte di Martinetti - mantiene aperto il discorso con l'ideario delle nuove generazioni (3). E questo perché, nel consolidamento dell'eredità trasmessa ai nostri tempi e a quelli che verranno, il fondatore del futurismo non ha usato "due dominii distinti e nettamente separati tra passato e futuro", ma ha dato "spazio anche all'azione, all'intuizione, al fenomeno analogico". Sostiene infatti Riccardo Campa, docente dell'Università di Cracovia, che per il consolidamento dell'eredità, il futurismo non ha "gettato a mare il pensiero razionale, l'analisi logica, la riflessione ponderata, le forme tipiche del ragionamento filosofico", ma ha "lasciato ad esse tutto il campo". Del resto "ogni spirito creatore, ha potuto constatare, durante il lavoro creativo, che i fenomeni intuitivi si fondono ai fenomeni dell'intelligenza logica", per cui il fondatore del futurismo, nella fusione delle intuizioni e delle esperienze tecnologiche, del lirismo essenziale e delle analogie senza fili, ha introdotto "su parecchie linee parallele" le "catene dei colori, suoni, odori, rumori, pesi e spessori, praticate dai poeti, ossessionando pittori, scultori, presto i mass-media" (R. Campa, "Trattato di filosofia futurista", opera citata).
Gli elementi fondanti di questa "profezia", come è stata chiamata (T. Iacopetta, "F. T. Marinetti profeta del nuovo", edizioni Calabria mia, 2004), sono stati confermati da Balla e Depero, che nel 1915, nel manifesto "Ricostruzione futurista dell'Universo", hanno sostenuto che "noi futuristi vogliamo realizzare questa fusione totale per ricostruire l'universo" (cfr. Biennale di Venezia del 1978 e rassegna di Torino, Mole Antonelliana del 1980). L'osmosi richiama le intuizioni delle parole in libertà e la fusione dei contrari, dirette "a dare l'espressione dinamica, simultanea, plastica, rumoristica della vibrazione universale" di questa realtà, come recita il manifesto di Balla e Depero. Per cui il nuovo complesso plastico non può che mirare alla sinestesi e all'opera totale, ricostruendo simultaneamente l'universo in termine di "astratto, dinamico, trasparentissimo, coloratissimo, luminoso", nonché "autonomo, trasformabile, cromatico, volatile, odoroso, rumoreggiante, scoppiettante" (4).
Nelle opere di Giacomo Balla viene rappresentato questo passaggio, insieme sinestetico e sinergetico, che guarda alla realtà con un'ottica diversa rispetto all'impressionismo e al praticato divisionismo torinese e romano delle origini, perciò in grado di penetrare e rivitalizzare la percezione dell'oggetto. Invero Balla - che a Roma aveva fatto da "ostetrico" al talento dei giovani "irregolari", - ha evitato l'equivoco in cui erano calati i divisionisti, circa il governo del chiaroscuro, che appesantisce i valori cromatici e spaziali, mantenendo il rapporto segno-luce e il colore-spazio attraverso una scomposizione estrosa e lucida. La sua pennellata è frenetica e breve, mentre il tono è lieve e senza peso, per cui ha eliminato il pesante bozzettismo che imperversava nelle varie scuole della penisola, legate ad una natura di impianto insieme verista nei contenuti e minimalista nella forma.
In effetti nei primi anni del secolo, grazie alle intuizioni di Balla e all'attività dei futuristi, l'ambiente romano e italiano non è più "un deserto culturale", nonostante il diffuso convincimento dei neo-accademici e dei franco-dipendenti nostrani (cfr. R. Barilli, "La sinfonia polifonica di Severini", Electa, 1983). Sicché il divisionismo romano, passato attraverso l'esperienza del "Pertichino" di Balla del 1898, prima di conoscere la pittura francese e successivamente di "Lampada ad arco" del 1904, ha mutato una direttiva di tendenza, da fenomenica in un senso dinamico, rispetto alla scuola di Parigi. E così Balla, pur guardando al bagno della luce naturale impressionista, ha trasformato il cosmo in motivo scompositivo e lirico, presto in un contrasto simultaneo, per cui Balla raggiungerà quella "maggiore intensità e complessità artistica", come poi dirà Boccioni.
Anche se non sempre il dinamismo plastico di Balla viene inteso come totalità degli elementi temporali e fisici, in effetti Balla anticipa il concetto nuovo della luce nello spazio: "strumento nobile per un'analisi dinamica e non statica, dialettica e plurale, quasi cellulare e microstrutturale, lucidamente conclusiva" (E. Crispolti, "Storia e critica del Futurismo", Laterza, 1986), soprattutto propulsiva del suo futurismo bipolare, rispetto a Boccioni. Ed è nel pieno fervore del futurismo che Balla, dopo le scomposizioni crono-fotografiche, affida alle sue forme l'espressione astratta del dinamismo, con tono leggero e scorrevole, con sempre nuove intuizioni e fantasie, rifiutando così la staticità classica del cubismo e superando la bidimensionalità di superficie dell'astrattismo storico, sicchè Balla diviene, negli anni del primo acquerello astratto kandinskiano, uno tra i più originali pionieri della non figurazione europea.
Nel 1914, mentre l'artista torinese celebra i suoi vent'anni romani, l'ambiente futurista si elettrizza, e il generico ideologismo si tramuta in politica d'intervento, assumendo caratteri più concreti, secondo il rilievo dello storico De Felice (cfr. "Mussolini il rivoluzionario", Einaudi, 1965). Era arrivato il momento di completare l'unità sociale e politica del popolo italiano e, attraverso l'articolazione delle architetture fatiscenti, come social-media, delle "Periferie" di Mario Sironi, Balla "identifica la sua pittura con la geografia della guerra"(M. Calvesi), imprimendo un carattere ideologico ai problemi spaziali e lirici della nuova nazione. Da "Maestro" del gruppo futurista romano, resterà attratto dal dinamismo plastico di Boccioni e seguendone l'insegnamento, integrerà simultaneamente la struttura, lo stato d'animo e lo spazio, specialmente al tempo dell'interventismo, durante il quale le sue opere si sono popolate di voci e di suoni, mentre lo sventolio delle bandiere animavano lo spazio intorno all'eclettico Altare della Patria. Nel dopoguerra, da pittore lirico, Balla non trascurerà l' information tecnology e approfondendo la tecnica simultaneista di colori-suoni-odori eseguirà l'accostamento, ritenuto "irriverente", tra una scultura di Michelangelo e il suo "ferro da stiro, bianco e metallico, liscio e rilucente, pulitissimo".
In questo contesto, Balla affronta l'altro aspetto dell'ossimoro boccioniano, legato al motivo di fondo del futurismo primigenio, ossia la dinamicità della struttura, a conferma che lo spostamento temporale degli oggetti non implica uno sprint per i momenti esteriori e testuali dell'unità, come praticato in "Dinamismo di un cane al guinzaglio" (1912) e in "Ragazza che corre sul balcone" (1912). Sicchè, dopo avere fermato la visione delle cose, con riferimento all'esperienza crono-fotografica consumata in Germania, realizza nel 1913 l'importante opera simultaneista "Velocità astratta e rumore di un'auto": esposta a New York, evidenzia l'impeto rilucente di un bolide in corsa e che solleva nembi di polvere e flussi di odori-suoni-colori, raggiungendo una sintesi di conoscenza dinamica che ha l'importanza di superare ogni episodicità meccanicistica.
Negli anni che precedono il primo conflitto mondiale si dibatteva in Europa – con la revisione degli stili architettonici – il "problema di rimaneggiamento lineare" della sagoma-casa ("l'ornamento è un delitto", sosteneva Adolf Loos), in contrasto con la visione decorativistica ed estetizzante dei secessionisti e che tendeva ad estraniare la facciata dell'edificio da ogni sviluppo di ordine sociale e tecnologico. Il manifesto dell'architettura futurista, firmato da Sant'Elia, ha in effetti interpretato la "ragione di essere della vita moderna", in quanto la casa non è vista in funzione dell'animazione di facciata, ma per un bisogno stereometrico, dal momento che è l'esterno (ossia la strada) che esercita (e misura) il moto-collegamento verso l'interno. Come lo stesso Sant'Elia ha precisato nel manifesto, non si tratta della "ripresa di culto barocco dello spettacolo che riconosciamo nel disegno della Città Nuova, ma un nuovissimo culto, per il movimento meccanico, come materia prima di un processo di collegamento "esterno-interno". Si tratta di un'esigenza dinamica non soggetta alla "legge della continuità storica", perché la casa "deve essere nuova come nuovo è il nostro stato d'animo". Sicché la "città a più livelli" (cfr. P. Portoghesi, "Il linguaggio di Sant'Elia", in Controspazio, maggio 1971, De Donato) è portata a "sfruttare il movimento reale dei veicoli, degli ascensori, persino del fumo e del vento", in quanto "l'interesse dell' architetto è rivolto, non tanto all'animazione della sua architettura - che anzi è sempre deserta di personaggi e oggetti casuali - quanto alla capacità di programmare e utilizzare plasticamente movimenti ordinati e prevedibili" .
D'altra parte, ai contestatori della Città Nuova di Sant'Elia, in quanto di impianto cartaceo, va suggerito che la rivoluzione architettonica futurista ha anticipato la soluzione dei problemi dei nostri giorni, individuando non solo i nuovi mezzi di costruzione, dal cartone alla fibra tessile e al vetro, ma il problema urbanistico vero e proprio, con riferimento all'organizzazione del traffico, che oggi come si sa occupa un posto preminente rispetto a quello dell'abitazione. Ma vi è di più. L'architetto futurista ha intravisto, nella profezia hegeliana della morte dell'arte, la crisi della storicità del linguaggio dell'arte, con particolare riferimento all'invecchiamento degli edifici e della città, e che porterà al risultato, dichiarato nel manifesto, "che le case dureranno meno di noi". Da qui il suo ammonimento a cui oggi non possiamo sfuggire: "Ogni generazione deve fabbricarsi la sua città". Utopia? Piuttosto un invito a considerare il rapporto tecnico ed etico intercorrente fra l'uomo che cambia e la città che invecchia, prima strutturalmente e poi come entità vivente. Una delle recenti edizioni della Biennale veneziana di Architettura ha infatti proposto per la città futura il tema "Less aesthetics more ethics", ma senza dimenticare il "Next", ossia la tendenza dell'uomo di oggi e dell'architettura moderna di verificare l'ambientazione con il contiguo e l'attiguo del contesto urbano, come sostenuto da Marinetti e il futurismo.
D'altra parte, il passaggio dalla "rivoluzione" alla "Reconstruction the Universe", sottolineato dalla rassegna di New York, non ha seguito l'ordine storico, entrato in crisi nella fase destruens, ma ha espresso, attraverso lo stato d'animo, i concetti e il linguaggio portati avanti dai manifesti futuristi, a conferma che la creatività del manifesto di fondazione è nata e si è espressa con la parola che si fa azione, dal momento che "non è assolutamente possibile per i futuristi staccare la prassi creativa dalla teoresi diretta e indiretta che la propone" (R. Civello, "F. T. Marinetti e i manifesti" in "Marinetti domani" a cura di L. Tallarico, Artevita, 1976).
In conseguenza, se le "fotodinamiche" di Anton Giulio Bragaglia hanno dato vita ai futuri sviluppi degli effetti speciali della cinematografia e della televisione, gli "intonarumori" di Luigi Russolo hanno aperto il campo alle installazioni musicali, avviando il passaggio ai segni digitali e allo sviluppo elettronico. Attraverso infatti lo strumento ideato e realizzato da Russolo, è stato consentito allo spettatore interattivo di recepire il suono in simultanea e di impossessarsi della realtà sonora della città, senza riguardo all'enarmonia e alle dissonanze eufoniche. La realizzazione dell'"intonarumori" porta la data del 1913, mentre le elaborazioni dei testi scientifici dello stesso Russolo (edizioni Futuriste di Poesia) sono state pubblicate nel 1916. Da allora erano passati quarantadue anni, allorché, nel 1958, l'Esposizione Universale di Bruxelles annunciava di avere realizzato il "Poème electronique", progettato dall'arch. Le Corbusier, con la musica elettronica di Edgard Varèse e Willelm Tak. E' stata una delle prime opere multimediali della storia in cui la tecnologia del digitale ha consentito di integrare spazio, immagini, luci e suoni nel segno dell'elettronica. Come si vede, le idee se viventi sono contagiose (5).
Dopo la consumazione del più grave misfatto della storia umana – la bomba atomica su Hiroshima – , nella città martoriata è stata realizzata da Alessandro Mendini, architetto milanese legato al gruppo futurista, unitamente all'arch. Yumiko Kobayashi, una "Torre del Paradiso" in acciaio combustibile e guglia alta 55 metri. Nella "Torre" è stata collocata una installazione sonora, che trasmette musica elettronica del musicista italiano Davide Mosconi.
A fronte di queste realizzazioni, che secondo la prospettiva data dalla mostra del Guggenheim non sono estranee le previsioni anticipate dal futurismo, è da segnalare un'altra notizia che potrebbe riguardare le conclusioni del nostro trascurabile intervento. Abbiamo appreso in questi giorni che le installazioni sonore hanno varcato i luoghi religiosi e precisamente gli ambienti del Centro musicale del San Fedele di Milano, ove i gesuiti della Compagnia di Gesù e un gruppo avanzato di intellettuali religiosi hanno impiantato, cum dignitate, l' "Acusmonium" elettronico, assicurando di voler – marinettianamente – coniugare fede-cultura-modernità, come ha dichiarato padre Antonio Pileggi: "Gesù vedeva gli uomini del suo tempo come erano – ha soggiunto padre Pileggi – con la loro luce e la loro tenebra", mentre l'immaginario dei giovani di oggi, legati ai comportamenti e alle performances del proprio tempo, non sempre considera che la vita da vivere è sfida, è lotta, è gioco infinito, teso alla trasformazione della realtà di domani (L. Pavanel, "Ed io dico che Dio ama i Metallica", rivista Style, maggio 2014).
E allora, quando si parla di futuro, occorre vedere – sosteneva il fondatore del futurismo – se i giovani abbiano "adorato e adorino la vita nella sua colorata e tumultuosa varietà illogica" in quanto conoscenza, e se abbiano arricchito la propria "sensibilità con il succo e con le vibrazioni di una vita impavidamente osata vissuta goduta". Ed è su questa parabola dell'unità dei contrari che si basano le conclusioni di un futurismo "rivoluzionario" e insieme "costruttivo" , così come intravisto dal Guggenheim, per cui possiamo dire, con Marinetti, che si tratta dell'interscambio della stessa vitalità e dello stesso impegno, sia dei credenti che dei lottatori e creatori d'arte: una parabola che comporta futuristicamente il "prolungamento della foresta delle nostre vene, che si effonde fuori del corpo, nell'infinito dello spazio e del tempo".
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(1) L. Tallarico, "Il Futurismo e la cultura della rivoluzione" in "I Futuristi", a cura di F. Grisi, Newton Compton editori, Roma, 1990. Capitolo ripreso dal saggio "Per una ideologia del futurismo" di L. Tallarico, Volpe editore, Roma , 1977. Riccardo Campa, nel "Trattato di filosofia futurista" (Avanguardia 21, Roma, 2012) scrive: Luigi Tallarico evidenzia che il Futurismo è una "rivoluzione letteraria ed artistica, che deve tendere alla trasformazione della vita politica e civile del popolo e non un avvenimento di natura soltanto estetica". E Tallarico ancora aggiunge:"In quanto attitudine intellettuale, il futurismo ha saputo creare una poetica basata sulla vita, di tali possibilità creative da modificare radicalmente gli strumenti diagnostici, ormai esangui, di una letteratura che non teneva il passo con la nuova civiltà e tali da non esaurirsi nell'estetica...".
(2) Dal 1984 la più estensiva documentazione sulla "seduzione dello sconfinamento" del futurismo, ovvero sulla integrazione portata avanti nelle nuove riflessioni, è quella sostenuta da Vitaldo Conte nelle sue numerose pubblicazioni: "Nuovi segnali" (antologia con audio-cassetta sulle poetiche verbo-visuali-sonore it. negli anni '70-'80), "Dispersione" (2000), "Anomalie e Malie come Arte" (2006), "SottoMissione d'amore" (2007), "Pulsional Gender Art" (2011), "Ritual Rose" (2013), mentre in "Fuoripagina TransArt" Conte raccoglie interventi già pubblicati su riviste, cataloghi e pieghevoli, usciti per manifestazioni da lui realizzate, soprattutto sul futurismo nel Salento e sotto forma di interviste a lui dedicate on-line (di R. Guerra, L. Siniscalco in Luuk Magazine) e sulle riviste Quadrante, Night Italia (di M. Fioramanti), nonché sulla rivista on-line Futurismo-oggi 2000 e sulla rivista storica a cura di Enzo Benedetto (1968) e poi di Luigi Tallarico (1993).
(3) Ha scritto Riccardo Campa in "Trattato di filosofia futurista" (opera citata): "quello che Tallarico comprende ed espone con estrema lucidità in 'I futuristi' richiamati non è sempre compreso dai critici letterari, i quali hanno invariabilmente la tendenza ad essere esteticocentrici".
(4) Nel Manifesto futurista "Contro tutti i ritorni in pittura", che porta la firma tra gli altri di Russolo e Sironi (1920), si legge che "in Francia alcuni cubisti imitano Ingres, in Germania alcuni espressionisti imitarono Grunewald e in Italia alcuni futuristi imitano Giotto". "E' assurdo e vile ritornare al museo, plagiando per rimanere nella pittura", dal momento che "ogni oggetto ha il suo ritmo particolare; ogni ritmo particolare deve concorrere al ritmo generale del quadro. Se in un quadro si può indifferentemente togliere, variare o spostare una parte, ciò significa che il ritmo di quella parte non è intimamente legato al ritmo generale del quadro, e che il quadro non è architettonicamente valido". Infine il manifesto futurista ricorda che Fernand Léger scrive: "J'aime les formes imposées par l'industrie moderne; je m'en sers; - les aciers ont mille reflets colorés plus subtils et plus fermes que les sujets dits classiques. Je soutiens qu'une mitrailleuse ou la culasse d'un 75 sont plus sujets à peinture que quatre pommes sur une table ou un paysage de Saint-Cloud, et cela sans faire du Futurisme". E conclude: "Siamo d'accordo con Fernand Léger, ma deploriamo che il suo eccessivo chauvinisme gli vieti di riconoscere che fu precisamente il futurismo a imporre la bellezza plastica e lirica della modernità meccanica".
(5) Ai nostri giorni la Nasa, l'agenzia spaziale americana, tramite il direttore artistico Bert Ulrich, ha raccolto materiali sull'attività e i suoni dei corpi celesti, dando la possibilità ad artisti ed operatori, quali Terry Riley, autore di "Sun Rings" e a David Harrington, direttore del Kronos Quartet, di realizzare odi musicali e immagini sonore del cosmo. "E' la Musica delle sfere?", si è domandata Roberta Scorranese (Corriere della Sera 21.10.2008). "Quella che il filosofo Pitagora percepiva quale cardine della perfezione universale? O quella che il latino Cicerone fa ascoltare a Scipione Aureliano nel Somnium Scipionis, stizzito dalla limitatezza della natura umana, incapace di cogliere le melodie armoniose che nascono dal 'movimento delle orbite'?". Viene comunque confermato che le previsioni marinettiane e l'esperimento di Russolo sulla captazione di suoni, colori, voci, provenienti dalla realtà, tutta la realtà umana e cosmica, producono il loro effetto grazie alla preannunciata nuova dimensione elettronica (L. Tallarico, "Luigi Russolo e la musica elettronica" in Catalogo della mostra sulla "Continuità del Futurismo", Cavallino di Lecce, Congedo Editore, 2009).