LA VOCE DEL FATO

Leggere le recensioni sulle recite del teatro greco di Siracusa o di Taormina o di quello romano di Spoleto, mentre per consuetudine siedo, tra giugno e settembre, se pur brevemente com'è avvenuto negli ultimi anni, sulle gradinate di quello romano di Orange, dopo aver assistito alle rappresentazioni negli anfiteatri di Arles e di Ni^mes: un percorso obbligato dei miei itinerari culturali, che mi muovono nelle direzioni diverse della globalità. L'incanto, prima delle Alpi Marittime con il loro trofeo imperiale e trionfante della Turbie, e ora della Provenza che scivola alle mie spalle, mi prende, disseminata com'è i segni antichi, dalle legioni di Cesare ai Crociati di San Luigi il Santo, con le vestigia di un glorioso passato che si esaltano con i portali di Saint-Gilles e con le memorie avignonesi dei papi e della Valle del Rodano. Davanti a me la parete altissima dell'antica scena, "il più bel muro del mio regno", come lo chiamava il Re Sole, dominata da una statua marmorea di Augusto qual'era oltre duemila anni fa, nel gesto del Redentore di Michelangelo; e nel parterre un andirivieni, tutte le estati, di operai impegnati a montare anche da queste parti non so quale spettacolo, che a suo modo imita quello straordinario in scena ogni luglio ad Avignone. E in quelle ore investite dal sole, ad Epidauro, nell'Odeon di Erode ai piedi dell'acropoli ateniese, gente di ogni provenienza confluisce dalle città balneari del Peloponneso e dall'Attica per assistere alle Fenicie di Euripide o alle Troiane di Sofocle nell'atmosfera che la vide nascere quattro secoli prima di Cristo, e a Ostia, a Fiesole, forse persino nel deserto tunisino nello scintillante Colosseo del Djem, nei resti suggestivi di Volubilis nell'estremo ponente romano dell'attuale Marocco, e sulle rive della moderna Anatolia turca (e presto anche nella ritrovata latinitas del teatro di Ventimiglia), risuonano da capo i cori di Eschilo, i fescennini di Plauto o i drammi satireschi di Aristofane o di Terenzio, la farsa dell'Apocolocyntosis di Seneca o i dialoghi ricavati dai frammenti di Menandro. Immerse nella solitudine durante gli altri nove  mesi dell'anno, nei tre mesi estivi le gradinate tufacee di quei teatri, popolano di gioventù pensosa e curiosa, non distratta dai clamori assordanti dei media, accorsa, talora dai paesi più lontani e ignari, ma disposta per quei pochi attimi al silenzio, alla suggestione di una parola e di un gesto trasferiti   da due millenni e più e trasmessi in lingue estranee e purtroppo spesso dimenticate da dall'intelligenza brancolante di oggi.Ed Eschilo, Sofocle ed Euripide e Aristofane o altri ancora che ne fanno il verso nella tragedia e nella commedia. Persino l'amore appariva ai loro occhi qualcosa di frivolo, se non fosse accompagnato dalla rovina della passione o dalla condanna del fato, anche quando si richiama il sorriso della critica e della satira. E il fato dell'uomo, la condanna della nostra nascita e della nostra morte, erano i temi del loro dibattito scenico, che fa impallidire per gravità quello di tutti i successivi drammaturghi. Ed è certo che Racine o Shakespeare sono al loro confronto autori umani e invernali, fatti per l'intimità delle sale delle corti o per i cortili di un castello scozzese. Forse è per tale ragione che le bomboniere dei tetri moderni non riescono a a racchiudere queste antiche voci, questi suoni del destino, nate per la vastità degli spazi e delle suggestioni serali. La frescura, la magia di un'ora di un paesaggio, il vuoto, pur tuttavia ricco di sensazioni irripetibili, di una sera estiva, talora di primavera o di autunno dalle tinte sfumate e malinconiche, ci offrono una stagione di emozioni inimitabili, che non si spiegano solo con l'astuzia delle agenzie turistiche. Una catena ideale di sublimi immagini dell'eterna condizione e contraddizione dell'uomo, che in estate collega la Spagna alla Turchia, al Nord Africa e oltre. Quell'istante di silenzio palpabile e irreale che travalica il mistero della natura, l'intuitività del gesto, la sensazione del simbolo, quando la bellezza poetica riscatta sulla scena  dell'uomo da tute le sue vergogne, da tutte le sue ignominie e fa diventare il tiranno una miserabile vittima di se stesso, e la più dolce delle fanciulle, un'Ifigenia o un'Antigone, il segno della nostra fragilità e della nostra rivolta. Un'emozione destinata a non restare limitata ad una serata, ma che ci apre ad una riflessione profonda sull'ascolto della voce del fato, la sola capace di costituire un'alternativa alla miseria in cui versa l'intelletto del nostro tempo.
Casalino Pierluigi, 30.08.2014