R-
Mia jò tacà a scrìvar in dialèt presapóch int almilnovzéntutantazìnch, quant a m'è gnù in mént un quèl ch'lévadit, mo propia in dialèt, la mié profe ad Latìη e Grèch quant ajéra al Liceo, na vintina d'àn prima. Avévan fàt al cómpit inclas e int la versióη ad Latìη agh jéra na fraś che qualcdunadill mié cumpagni (a jéran tuti féman parché int la sucursàl adVìcul dal Gregòri ill suór in vléva briśa di masć) la n'évagnanch capì béη. Sta fraś la jéra “vellem nescire litteras”e al l'éva dìta l'imperatór Nerone na òlta ch'al n'avrév briśavlèst firmàr na cundana a mòrt, elóra, se al n'avés briśa savùfar a scrìvar, al s'sarév putù ciamàr a pari. E la profe la n'asdàva paś che a sta qualcduna a n'agh fus briśa pasà pr'al zarvèlche in dialèt a s'diś propia “aη savér briśa ad létra” e dalì a s'putéva capìr tut.
Dopa tant àn, quant che piaη pianìη ormai a s'tacàva a pensàr cheiη fiη di cónt al jéra óra ad śmétar ad cunsideràr al nòstardialèt sól cmè al mòd ad zcórar di puartùz, a m'è gnù dapensàr anch a mi che se al l'èva druà anch na profe, che las'n'intandéva purasà e j'al savéva tuti, alóra a gé béη vlérdìr che un qualch valór al la duéva avér anch al fraréś!
Dalì a jò scmanzipià a far dill traduzióη dal Latìη al fraréś(Orazio, Catullo e soquànt àltar ad chiór ca lì) ch'ill j'è poanch andà a finìr su un lìbar, po la n'è mina finì, a jò scritanch tanti cmèdi e la źéntch'i li gnéva a védar i s'gudéva parché ill n'jéra più ilsoliti stori ad chi pòar lì d'dòp ch'i gnéva imbrujà da quìipiù śgagiào dd qualch marì ch'al cardeva che la mujér la gh'fés i còran!
Peròmi a gh'avéva sémpar la curiuśità ad védragh più ciar int aldialèt e am sóη fata su ill mànagh e a jò tacà a studiàrpropia dabóη. Sì, a m'è capità na qualch vòlta anch ad strinàral sufrìt o ad źmandgàram ad fàr da zéna e mié marì l'am gévaogni tant squasànd la tèsta: “Mi a t'ò vist a studiàr purasàquant a j'éran ragazìt a l'Università, mo acsì tant mai!”
Moa vléva rivàragh ad cò, parché con Baiolini e soquant àltar,spargugnà in zà e in là par la pruìncia, a s'jéran mis int latesta ad fàr un Vocabolari, na Gramatica e tut quél ch'agh tién adré e, a la ligàda dill stròp, agh séη po rivà!
Ampiaś po anch ad scrìvar in Italiàη, ah! A jò scrit dill poeśìi,di racónt, a jò infìη scrìt uη lìbar su com a vivéva la povraźént da na vòlta, e anch lì aη putéva mina fàr di méη adtiràr in bal al dialèt, ah!
Moguarda béη quant un quèl l'à da dàr... a jéra lì ch'abambanava par truàr al parché i nòstar vèć i géva 'macarùη adpatàch' e briśa 'gnòch' come i zitadìη dal dì d'inquó, béηmo aη vàgh a scàźar a cóntra al parché a s'dìś 'tiràr laspója'!
An'agh vòl mina la scala a iηmaginàras che, curióśa com a sóη,pèź che na simia, a jò tirà drit a testa a bas e a jò mis insiémuη fas ad roba che agh cavarò un àltar lìbar, sicùr sicùr!
Es'a fus incóra al mónd i nòstar nunùη, i s'maraviarév anca lóra savér che, soquànt zantanàra d'àn fa, anch quìi ach jérainteligént e i savéva ad létra i géva (e i scrivéva) 'renga,scarana, cavedoni, zampini, pirioto...' e tant àltar bèi quèi,propia come lór che invénzi i savéva sól zcórar al so dialèt.
Floriana Guidetti
Ho cominciato a scrivere in dialetto verso la metà degli anni ’80, quando mi è affiorato il ricordo di una frase, proprio e quasi incredibilmente in dialetto, della mia insegnante di Latino e Greco del Liceo “Ariosto” di Ferrara, direi nel 1964, per esprimere nel modo più diretto e convincente il significato di una frase in latino, della versione del compito in classe. Si trattava di “vellem nescire litteras”, parole pronunciate da Nerone (forse dagli Annali di Tacito, ora non ricordo bene) che avrebbe voluto rifiutarsi di scrivere, cioè firmare, una condanna a morte.
Quel ‘vorrei non saper scrivere’, che qualcuno non aveva invece compreso bene, doveva essere chiarissimo, secondo l’insegnante, per i ferraresi che usualmente, in proposito, dicono o sentono dire an savér brisa ad létra, per identificare chi non sa leggere e scrivere.
A distanza di tanti anni, quando timidamente si stava cominciando un percorso di rivalutazione del nostro dialetto troppo spesso e troppo a lungo rifiutato, anche dagli stessi parlanti, come indice di inferiorità sociale, mi è sembrato doveroso dare seguito a quella frase detta da un’autorevole insegnante, tanto stimata sia dai colleghi che dagli scolari.
Mi è piaciuto quindi cominciare a fare traduzioni proprio dal latino al dialetto ferrarese e qualcuna di queste è poi stata pubblicata in un’Antologia di scrittori ferraresi.
Sono seguite diverse commedie per il teatro dialettale, tutte rappresentate e apprezzate dal pubblico che ha saputo ravvisarvi un dialetto attuale, non più solo ancorato a realtà rurali di un tempo o a personaggi dei quali sorridere per il loro fare sprovveduto, elementi tipici del teatro tradizionale.
Però, proprio il desiderio di cercare di portare il nostro dialetto alla dignità che giustamente gli compete, mi ha fatto intraprendere, con tanta passione, studi di dialettologia e linguistica e a collaborare, insieme ad altri dialettofoni, con Romano Baiolini, per la compilazione dei Vocabolari e della Grammatica del dialetto ferrarese.
Mi piace scrivere anche in italiano, poesie e racconti, ho scritto anche il libro “La cucina dei nostri vecchi”, ma sempre con attenzione a quanto è confluito alla mia espressività dal dialetto, l’unica lingua parlata fino all’età scolare.
Proprio in occasione di ricerche su argomenti della cucina di un tempo passato ma anche remoto, ho potuto e voluto sconfinare nell’antico (chi mi conosce sa che sono più curiosa di una scimmia…), trovando dati interessanti per spiegare ad esempio l’origine del detto ferrarese ‘tirare’ la sfoglia, oppure del vocabolo manì nel senso di obbligato, con varie altre osservazioni riportate poi in una recente Antologia di scrittori del “Tréb dal tridèl” (Accademia del cruschello), Cenacolo di cultura dialettale ferrarese.
Questo interesse per la ricerca non si è ancora esaurito e sto proseguendo a delineare un percorso di parole e detti del nostro dialetto attraverso trattati di storia della letteratura gastronomica, da Apicio a noi, passando tra le opere, straordinarie, del periodo rinascimentale. Se è vero che “La storia passa dalla cucina” (Jenny Bassani), vale la pena pensare che anche la parlata popolare vi abbia avuto una sua compartecipazione significativa.
2. Il dialetto come anima e cuore dei popoli? Archeologia viva e misconosciuta persino della mente umana e nelle sue differenze peculiari?
R-Il dialetto è (e credo che resterà ancora per un po’) il modo più spontaneo e genuino di comunicare, è quasi un modo di essere e di vivere di una comunità. Nulla è più sbagliato di voler chiamare un dialetto ‘vernacolo’, come parlata di servi, verna era infatti il servo nato in casa e il termine è passato poi ad indicare prevalentemente la servitù di cucina, ma il dialetto è la parlata di un popolo, non solo dei servi.
Il ferrarese è il proseguimento, l’evoluzione, della parlata dei coloni romani che si insediarono nelle zone di Voghiera-Voghenza e via via nelle terre alte di quella zona malsana e paludosa che fu in seguito sottoposta a bonifiche e che certamente non aveva ospitato in precedenza insediamenti, di una certa consistenza, di popolazioni di origine Celtica. Ecco perché non si può frettolosamente catalogare il dialetto ferrarese tra i gallo-italici, se si tiene nel dovuto conto tutta una serie di attestazioni sia di carattere linguistico che archeologico che ne documentano la derivazione ‘lineare’ dal latino volgare, mancando un substrato celtico influente.
Comunque sia, ogni dialetto è sentito da chi lo parla come qualcosa che gli appartiene intimamente, per aver udito così le prime parole dalla mamma, le ninne nanne, le filastrocche dei nonni, per aver imparato da sempre a pensare in dialetto, per aver affinato il proprio lessico sulle esigenze dei lavori del suo territorio, per aver considerato con curiosità e compiacimento le differenze tra la ‘sua’ parlata e quelle contigue, in un apprendimento consapevole di identità e di appartenenza.
Se non si può (e non si può) fare granché per arrestare il processo evolutivo che sta portando i dialetti a stemperarsi nella lingua, perdendo le proprie connotazioni, si può fare però qualcosa perché non vengano dimenticati, considerandoli come documenti storici, come veri e propri ‘monumenti’, lasciando quindi opere di testimonianza e di consultazione per quelli che già oggi non conoscono i dialetti e per i giovani didomani, quando davvero non ci saranno più quelli che, ancora, continuano a parlare in dialetto e che, ancora, possono ricordarci le storie e le fiabe che ci raccontavano i nostri nonni, mentre con esse ci trasmettevano semplici e solide regole di vita.
3. Il dialetto obbligatorio a scuola secondo lei non favorirebbe una visione aperta dei pensieri e del linguaggio?
R – A mio avviso è improponibile un insegnamento ‘obbligatorio’ del dialetto a scuola, prima di tutto per il motivo semplicissimo che non ci sono abbastanza insegnanti che ne abbiano una conoscenza adeguata per insegnarlo, o perché non sono proprio del posto e quindi non conoscono quel dialetto o perché non vi si sono mai dedicati a fondo per conoscerne le peculiarità grammaticali e sintattiche oltre che lessicali, indispensabili per insegnarlo, in secondo luogo perché la presenza in classe ormai di tanti bambini di origini non italiane renderebbe ancora più complicato se non impossibile far recepire considerazioni linguistiche sulle quali sarebbe poi difficile ‘esercitarsi’ visto che ogni altra forma di comunicazione sarebbe in Italiano o, in famiglia, nella loro lingua nativa.
Sarebbe invece molto importante e facilmente realizzabile qualcosa di facoltativo e pertanto fatto solo se si è interessati, come si sta facendo in alcune scuole di Ferrara e provincia, dove, su richiesta di qualche insegnante, si è proposto di inserire tra le attività complementari un lavoro di collaborazione tra insegnanti ed esperti, col coinvolgimento dei ragazzi condotti a conoscere semplici filastrocche, fiabe, giochi e usanze dei bambini di tanto tempo fa, ma anche ed eventualmente, a seconda dell’età, semplici elementi grammaticali del dialetto, comparati con gli analoghi dell’italiano. Quindi si supererebbe lo scoglio dell’aspetto esclusivamente linguistico a favore dell’acquisizione di elementi della storia, antica e recente, del territorio e della gente, con la conoscenza, anche se limitata della parlata, degli usi e costumi di un tempo, nel rispetto delle tradizioni. Tutto questo ha un valore determinante proprio in momenti di globalizzazione, quando per istituire un dialogo consapevole e corretto, di reciproco rispetto nel rapporto con altre culture, si rivela indispensabile anche conoscere e rispettare le proprie radici, per avere qualcosa da proporre e da prospettare a confronto, per non trovarsi solo nella necessità di ascoltare, di accogliere e di accettare.
Certo che, nel caso del dialetto ferrarese, se, tanto per fare un esempio, l’insegnante di latino del Liceo conoscesse bene il dialetto e sapesse che, sempre ad esempio, aquatia ha dato guaza, la rugiada, per aferesi di a- e sonorizzazione di q in g, come capra>cavra, piper>pévar, chelepor(em) ha prodotto (a)liévar, con dittongazione tipica ferrarese di e in ié in sillaba libera (non caudata, per usare un termine più attuale), così come è avvenuta questa dittongazione in fradèl> pl. fradèl(i)>fradié stavolta per metafonesi indotta dalla i successiva, allora forse l’analisi di queste ed altre proprietà del dialetto, proposte via via a seconda dell’occasione, potrebbe indurre gli studenti ad avvicinarsi con interesse alla comparazione di fenomeni analoghi o inversi in altre lingue e, nel caso specifico, a non considerare il latino stesso una lingua ‘morta’, da studiare malvolentieri, ma solo una fase remota dell’evoluzione della nostra lingua, dialetto compreso, e, come tale, parte di noi nel nostro ambito culturale. Ma tutto questo, quand’anche non si considerasse di difficile attuazione, richiederebbe comunque un impegno a lungo termine, in un progetto di lavoro e di studio ancora più ampio.
4. Il dialetto come lingua morta o nostalgia del tempo passato e statico, molti pensano: ma al contrario, ad esempio i nuovi idiomi degli sms e del web non dimostrano l’opposto, ovvero in principio sempre un dialetto, quindi quasi un radar della parola in trasformazione?
R – Il dialetto, come ogni altra lingua, non nasce e non muore, ma si evolve, convivendo con altre realtà linguistiche, prevalendo poi o soggiacendo. Il dialetto di oggi è cambiato rispetto a quello di pochi decenni fa, quando era prevalentemente la lingua di una comunità rurale, di gente semplice, incolta, ma con una ricchezza lessicale straordinaria, di voci legate alla campagna, alle stagioni, ai raccolti, agli attrezzi e a lavori e mestieri praticati con consapevolezza e competenza, oggi scomparsi, o trasformati del tutto dall’avvento delle macchine. I cambiamenti sono stati più radicali negli ultimi cinquant’anni che nei precedenti cinquecento, ma questo vale non solo per il dialetto. Il nostro ha avuto in sorte un rapidissimo ed inesorabile declino: con la scolarizzazione di massa, in breve tempo, la nostra parlata è stata accantonata, trascurata, quasi dimenticata. Quella che si era mantenuta pressoché inalterata per secoli, nell’arco di pochi decenni si è vista denigrare e rigettare, quale parlata ‘di vilàη iηgnurànt’ dei villani ignoranti, non avendo mai goduto del prestigio linguistico di altri dialetti, parlati da tutti, ad ogni livello sociale.
Adesso c’è tra i giovani un ‘revival’ di termini dialettali, esclamazioni colorite, modi forse di essere più incisivi ed efficaci nell’intercalare, ma per quanto riguarda l’uso dei vari sms, mi sembra di poter individuare piuttosto un’esigenza stenografica che porta ad una forma di linguaggio direi quasi gergale e tuttavia con una sua ragione d’essere, un nuovo modo, rapido ed essenziale, di comunicare.
Del resto ogni contesto, sociale, storico o ambientale che sia, ha le sue necessità e chi ne fa parte si adegua, modificando opportunamente le sue strategie di comunicazione. In fondo, volendo, anche questo può essere inquadrato come dialetto, se vogliamo attribuire, in modo molto riduttivo, a questa parola un significato legato alla mancanza di opere letterarie, come spesso è stato fatto, ma chissà che in un prossimo futuro non possiamo trovarci a leggere un romanzo nel linguaggio dei messaggini, chissà?!…
R.G.
Info: fonte http://www.eccolanotiziaquotidiana.it/emilia-news-intervista-a-floriana-guidetti-il-dialetto-ad-futurum/
http://teatrodemicheli.it/index.php/fattoria/56-fattoriascheda4