É prassi di Luuk Magazine illustrare le principali tendenze del panorama artistico e culturale nazionale ed internazionale. Talvolta si tende tuttavia a sottovalutare le riflessioni di intellettuali anticonformisti, eretici tanto rispetto alla cultura di massa quanto in relazione ai salotti dell’intelligentia upper class.
Con questa intervista intendiamo proporre ai lettori le meditazioni di un artista distante dai canoni main stream, tuttavia ampiamente apprezzato da una critica di rilievo e, soprattutto, capace di offrire uno sguardo diverso sulla dimensione della modernità a noi contemporanea con cui, mediante modalità differenti, siamo destinati a confrontarci. Ne emerge un’analisi insieme lirica e cinica, profondamente poetica ma al tempo stesso graffiante. I toni impiegati da Alessandro Guzzi, volutamente radicali e taglienti, si prefiggono l’arduo compito di smuovere l’individuo massificato dall’apatia corrosiva imperante, in nome di una visione del mondo ben precisa. Spetta al lettore accettare o meno i presupposti artistici, culturali, religiosi e politici che sorreggono le affermazioni di Guzzi. All’autore di proposizioni palesemente scomode e minoritarie va tuttavia l’indubbio merito della coerenza e dell’onestà intellettuale, doti sempre più rare, unite all’esibizione di un approccio unitario ed organico alla realtà, battuta con un “filosofare col martello” di impronta nietzscheana e sminuzzata con i ferri di un chirurgo capace di non tirarsi indietro di fronte ad alcun ostacolo.
D) Com’è nata la sua passione per l’arte?
R) Non posso non pensare a qualcosa di antico, di impresso o inciso e che è ritornato con me. Non è forse quella per l’arte come una vocazione o una conversione? Potrebbe avermi spinto ad essa un’incurabile nostalgia senza fondo, una scena osservata in un silenzio sacro, forse un rito, o forse solo un gesto, come scrive Cristina Campo in un testo famoso ispirato dalla Liturgia Cattolica di S. Pio V:
«Si sa di molte conversioni dovute alla predicazione, ma la scintilla può scoccare da un solo, perfetto gesto liturgico; c’è chi s’è convertito vedendo due monaci inchinarsi insieme profondamente, prima all’altare poi l’uno all’altro, indi ritrarsi nei penetrali del coro.»
Ma debbo aver percepito da sempre, anche solo intuitivamente, la verità del pensiero di Spengler sulla fase di mondo che mi si apriva:
«L’uomo euro-occidentale non dovrà più attendersi una grande pittura e una grande musica. Le sue possibilità architettoniche si sono esaurite già da cento anni. A lui sono solo rimaste possibilità nel dominio dell’estensione. Ma io non vedo che svantaggio dovrebbe esservi se una generazione valida e piena di speranze illimitate verrà a sapere tempestivamente che una parte di tali speranze sono vane. Anche se queste fossero le più care, chi vale qualcosa saprà abbandonarle e imporsi. Certo l’esito potrà essere tragico per taluni quando, negli anni decisivi, acquisteranno la certezza che per essi nel dominio dell’architettura, del dramma e della pittura non è più possibile alcuna conquista. Che costoro crollino…»
(Il tramonto dell’Occidente, pag 71)
Questa tragica considerazione è da estendersi propriamente anche ad altri domini: nulla ne è rimasto indenne in verità: resta però la considerazione (decisiva) che anche in una fase del tempo tragicamente estenuata e contaminata come questa, il simbolo racchiude ancora tutta la sua potente energia, ed è capace sia di condensare la nostra esperienza che di indicare il futuro. E dunque a cosa si rinuncerebbe se non ci si dedicasse all’arte? A cosa si deve rinunciare se ci si dedica ad essa.... C
http://www.luukmagazine.com/it/2012/09/15/dialogo-con-un-eretico-ortodosso-intervista-ad-alessandro-guzzi/