Paolo Melandri: Una giornata difficile con Mozart


Il 19 agosto 1783 in casa Mozart a Salisburgo l'atmosfera era plumbea. Il piccolo Raimund, primo figlio del compositore, era morto ad appena due mesi d'età: ne era giunta notizia da Vienna, dove i genitori lo avevano lasciato a bàlia. Wolfgang, adagiato mollemente su di un'elegante chaise longue decorata all'italiana, reprimeva a stento i sospiri del rimorso. Aveva deciso la visita al padre e alla sorella in vista dell'esecuzione nella Peterskirche di Salisburgo della sua ultima fiammata d'ingegno: la superba Messa in do minore, di cui andava particolarmente fiero. La scelta della barocca cattedrale del borgo natìo per la première di quel monumento dello spirito era dovuta prevalentemente a inconfessate ragioni sentimentali: lì, nell'allegro splendore dei riti cattolici, aveva avuto la sua prima esperienza del divino. Inoltre per riconciliarsi il padre e cancellare gli antichi rancori quale occasione sarebbe venuta migliore di quella di far cantare la graziosissima mogliettina in una composizione di carattere sacro, dunque altamente morale, e tale da far piazza pulita di tutte le ciancerìe sulla sregolatezza della sua condotta nella capitale?

L'operazione non aveva funzionato: l'accoglienza era stata piuttosto fredda: i rancori, covati a lungo sotto le ceneri di un ambiguo rapporto epistolare, lungi dal chetarsi, erano divampati in rimproveri espliciti. Ben aveva da rimproverare all'audace fratello l'egoismo e la dimenticanza la dolce Nannerl dalle chiome lisce sempre in perfetto ordine; ben aveva da biasimare l'anziano genitore l'ingratitudine del figlio che lo informava delle nuove acquisizioni della sua arte nel tono distaccato del dispaccio militare, con in testa alle lettere sempre quel Mon trés cher père monotono e sussiegoso fino all'ironia! I pasti erano teatro di frasi taglienti e di silenzi imbarazzanti, mentre la cara Konstanze, la dolce mogliettina amica dell'innocenza, non riusciva, nonostante i reiterati sforzi, a legare con la famiglia Mozart. In certi lenti pomeriggi estivi l'orologio a pendolo acquistato da Leopold in Olanda durante una tournée promozionale dei figliuoli scandiva il distacco che si faceva spazio tra loro.

Giorni lontani della gaia innocenza matrimoniale, scampagnate amorose al Prater! I coniugi Mozart erano sembrati inseparabili: a diffondere la voce era stato l'Imperatore stesso, che aveva scorto, durante una delle sue passeggiate in borghese, l'acclamato fortepianista conversare con la fanciulla sotto l'ombra di un tiglio, appoggiato al tronco, mentre lei, adagiata s'una comoda palandrana del marito, raccoglieva anemoni di campo.

Il matrimonio aveva avuto luogo nonostante l'opposizione paterna; dopo la lettera in cui "l'affezionatissimo figlio Wolfgang Amadé Mozart" aveva comunicato al padre il secco resoconto dell'avvenuta cerimonia, l'opposizione di Leopold si era mutata in risentimento, un risentimento che, nonostante l'apparente consenso dettato dalla cortesia e dall'impotenza, perdurava tuttavia e anzi si accresceva conformemente ad un carattere incline alla più esasperata amarezza.

Wolfgang, da parte sua, non vedeva in ciò un serio ostacolo alla propria felicità: giacché la dea Fortuna e la dea Fama, della quale ultima si poteva ammirare un'immagine nell'elegante residenza viennese dei Mozart, sembravano volgersi a lui con rinnovata benevolenza.

E Konstanze era rimasta incinta, ed il 18 giugno aveva scritto Wolfgang al padre: «Mon trés cher Père! Le faccio le congratulazioni, è diventato nonno!».

E il prosieguo della lettera scherzosa informava l'impettito violinista di come in occasione del battesimo al nome del nonno si fosse aggiunto d'obbligo quello del padrino barone von Wetzlar, che aveva espresso il suo compiacente desiderio à propos della faccenda esclamando allegramente: «Ah, adesso abbiamo un piccolo Raymund», e baciando espansivo il florido bambino. Ché Raymund Leopold era stato "un maschietto forte, robusto e grassottello", e la consolazione di papà.

Ora era morto, e, anche se aveva avuto battesimo, il padre immaginava la sua animuccia vagolante all'ingresso del Limbo: «e s'elli ebber mercedi, non basta…».

Fu distolto dalle sue funebri meditazioni dall'arrivo dell'abate Varesco, che quotidianamente faceva visita alla famiglia musicale per certi contatti che doveva prendere con Wolfgang per la stesura di un'Opera… Aveva preparato il libretto d'una farsa che, quantunque povera drammaticamente, era molto ben allestita in ciò che concerne la scelta delle parole e l'abilità nel verseggiare. In particolare, una citazione dell'ippogrifo ariostesco, benché poco motivata dal contesto, aveva molto divertito Wolfgang, che si era ricordato delle frequenti letture infantili del poema immaginoso nelle carrozze ben riscaldate di cui aveva fatto uso con suo padre per gli spostamenti veloci del suo soggiorno italiano. Ma, quanto al resto, il libretto era pieno di punti deboli, e se Mozart continuava a sostenere che gli "piaceva abbastanza", ciò era dovuto al carattere di Varesco, uomo da trattarsi con molti riguardi.

Ora stava entrando, col consueto sussiego:

-              Buongiorno a lorsignori! Ma che è successo?

-              Signor poeta… - si attentò a dire la mite Nannerl.

-              Ditemi, carissima…

-              Signor Abate – si corresse – è morto il piccolo figliuolo di mio fratello.

L'abate sussurrò con la sua voce melensa un requiem, poi impartì in sovrappiù una benedizione agli astanti, che s'eran messi a pregare con lui: - Benedicat vos Dominus Omnipotens Deus

Si sistemò l'enorme inamidatissimo colletto, tossicchiò, si asciugò una lacrimuccia, si schiarì la voce, infine aggiunse in tono salmodiante: - Ogni cammino d'uomo ha il proprio fine.

Tutti gli astanti: Nannerl, Konstanze, Leopold e Wolfgang apparivano visibilmente infastiditi da quella che pareva loro retorica misticheggiante da secolo decimosettimo, eppure Wolfgang non riusciva a rimuovere da sé una certa partecipazione emotiva alle parole dell'abate. Ne era turbato.

Si levò, e non percepì un cenno del padre che lo voleva con sé per parlargli. Passò accanto a Konstanze ed i suoi occhi non incontrarono quelli lucidi di lacrime della mogliettina che lo cercavano.

Andò alla finestra e vi rimase a lungo dirigendo i propri sguardi alla mèta dell'orizzonte che i suoi occhi azzurri sempre cercavano. Era completamente indifferente a tutto. E non si accorse neppure che Varesco, dopo aver porte le proprie scuse per l'intempestività della visita, era uscito.

M. Haydn, fratello del celebre compositore e futuro amico di Mozart, aveva ricevuto commissione da parte dell'arcivescovo Colloredo, l'antico aguzzino cordialmente detestato dal Nostro, di due duetti per violino e viola, ma non li aveva potuti comporre a causa di una persistente malattia.

Proprio di essa parlavano ora, seduti sul sofà, la moglie e il padre di Wolfgang, e anzi facevano un poco di maldicenza, convinti com'erano che avesse legami con la nota dedizione dell'organista di corte al vino.

Mozart non udiva ciò, ma una voce più profonda che lo spingeva a intervenire a favore del vecchio amico, memore dell'antica devozione: ed anzi nella sua mente prendevano già fin d'ora forma temi ed armonie di un genere cameristico assai congeniale a lui, che si era fatto le basi di violinismo duettando alla viola col pardre virtuoso e didatta dello strumento principe. Il travestimento era sempre stato la sua passione: nessuno più di lui a Carnevale si calava esteriormente e interiormente nei panni di Arlecchino. Questa volta c'era da celarsi nei panni del "vecchio, ottimo amico Michael Haydn"! – Che passione! – pensò. E sorrise. La moglie guardava a lui come si guarda ad un enigma. – Che divertimento spedire un saluto al gran muftì – così chiamava l'antico aguzzino che gli chiedeva la pagina prima che fosse terminata –, che divertimento recargli l'ultimo omaggio senza che se n'avveda! – I temi gli venivano con grande spontaneità. Sentiva realmente la viola intonare una cantilena tra seria e malinconica. – Sicuramente Michael ne sarà soddisfatto –, pensò. E prese congedo dai suoi.

Nello studio un'enorme congerie di fogli copriva la scrivania.

Da un lato giacevano affastellati in gran disordine i brani già compiuti della grande messa. Essa, ancora lungi dall'essere compiuta, doveva essere eseguita il 25 agosto nella Peterskirche, ed era in programma un'unica prova da tenersi il 23 agosto nel Kapellhaus: era giocoforza che si rimpiazzassero le parti mancanti con brani di messe precedenti: all'esausto artigiano dei suoni spettava anche il compito gravoso e tutt'altro che rapido di trascegliere i passaggi adatti e di 'cucirli' in un tutto di passabile unitarietà. Vi era poi la necessità di adattare gli ariosi alle capacità vocali dei cantanti, non tutti, questa volta, di prima risma. La parte di soprano doveva essere cantata da Konstanze e Dio solo sapeva quanta applicazione ancora le bisognasse per pervenire all'agilità necessaria per eseguire gli elettrizzanti vocalizzi del Gloria! Ogni sera le faceva fare esercizi di solfeggio cantato, e a tale scopo aveva composto per lei qualche brano didattico che giaceva per terra sotto il fortepiano a sinistra della scrivania: Mozart se ne ricordò e li rilesse compiaciuto al lume incerto d'una candela di sego: - Se solo giovassero a qualcosa! Lei è così svogliata! Povera, cara Konstanze! – pensò, e starnutì per la soverchia vicinanza alla fiamma. Era piuttosto miope, e non sempre era capace di tenere le distanze debite dai fogli.

Si alzò. Andò a mettere un po' d'ordine ai fogli della messa: c'erano il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus e il Benedictus dell'Ordinarium. Il Credo era rimasto incompiuto, e l'Agnus Dei mancava ancora del tutto. Alla sonata dopo l'epistola avrebbe supplito con una composizione giovanile. Ma quale? Non v'era nessuna tra esse che, a paragone della nuova sublime acquisizione della sua arte, non suonasse scipìta e leziosa. Era veramente impossibile mettere a contatto il minuscolo mondo rococò della sua ingenua fede infantile con le angosciate interrogazioni dell'attuale rinascita haendeliana. E solo due di esse avevano un vero respiro sinfonico! Ma le conservavano ancora le partiture, in Canonica? All'occorrenza si sarebbero potute raddoppiare le parti dei violini coi flauti in una delle sue sonate per organico da camera. Così l'abisso sarebbe balzato meno agli occhi. Rise: - Non hanno mai capito niente, i miei salisburghesi.

Ma non per questo era venuto in camera, bensì per i duetti. Del primo aveva già composto mentalmente il primo tempo davanti alla finestra: si trattava ora di trascriverlo nella consueta netta elegante grafia mentre la mente sarebbe stata occupata ad elaborare altro… - Bene! – e tamburellò con le dita sul panciotto, quasi percotesse i tasti di un invisibile fortepiano (così era solito fare quand'era di umore eccitato) – ed ora al lavoro! – Ma il pensiero gli tornò al florido infante che aveva lasciato nella culla. Ora un cereo pallore si stendeva sulla pelle liscissima di quelle guance paffutelle. – Raymund! Raymund! – E in un adagio mestissimo profetò egli la discesa della piccola anima agli Inferi.







Paolo Melandri

14 luglio 2012