nuovo carmen "Lo sento", di Paolo Melandri, tra gli autori del libro manifesto "Nuova Oggettività" tutto tenuto rigorosamente in tonalità minore e in stile osservato. L'intensità del pathos infuso - oggettivamente - è grande e potente , rivolto sempre a un "voi" e a un "tu" collettivo, in rigoroso rapporto dialettico.
Lo sento
Lo sento a quel ch’io provo: ormai gran parte
più con te non avrò, mia amata vita;
il capo è frastornato, conto a forza
e debolezza vuota d’ogni cosa
serpeggia per le membra, e mi fa male.
Son attutiti i sensi e le passioni
camminano leggere su tappeti,
senza più far rumore: ogni piacere
m’è indifferente, ed il volto divino
dell’uomo si dissolve in un vapore
di lampi e ghirigori, senza centro.
Si tratta di qualcosa che m’è interno,
come il presagio d’una morte oscura.
Amici ed alme affini non mi mancano:
ciascun di loro m’è vicino e m’ama;
in società socievole ed allegro
e senza infingimento sono ancora.
Sono curioso dei casi degli altri,
ma dentro di me crescer sento un vuoto
che tregua non mi dà, e mi lascia vuoto
come il guscio di una lumaca morta.
Ho chiesto forse troppo alla mia vita –
ma a ripensare a quel che m’è successo
e a quello che s’attende ancor da me,
sotto i migliori auspìci si presenta
dei miei giorni futuri la sequenza.
Né le difficoltà mi fan paura,
ma non sono i problemi il mio problema.
Eppur qualcosa incògnito, indistinto
cui dar non posso il nome di Destino
sui giorni miei si libra, come l’ala
fremente di un grifagno uccel da preda
che studii le mie mosse, per cibarsi
delle mie carni, quando il tempo giunga.
Sta tutto nel saper se il tempo giunga
e quando giunga, ma non è concesso
a nessuno di noi contare i giorni
che sulla terra son nostro residuo
di vita e di speranza. Ché la morte
(a ben guardare) è l’ultimo traguardo
e il vero fine della nostra vita,
da qualche anno invero sono entrato
in familiarità con quest’amica
sincera e vera di tutti gli umani,
così che la sua immagine ai miei occhi
non ha più nulla di terrificante,
ma pare addirittura come pace
molto tranquillizzante e consolante.
E pur ringrazio Dio d’avermi dato
questa grande occasione di conoscere
la chiave in essa della mia letizia,
della felicità di morituri,
unica, che ci resta. Non mi còrico
mai senza il pensiero che, benché giovane,
all’indomani non mi sveglierò.
Eppur nessuno tra tutti coloro
che mi conoscono potrà mai dire
che in compagnia sia triste oppur sgarbato
o di cattivo umor. Perciò di questa
fortuna ringrazio, giorno per giorno,
il mio creatore e l’auguro di cuore
a ciascuno dei miei sofferti simili.
Potrete facilmente immaginare
di che dolore muto abbia sofferto
quando la cara nonna mi ha lasciato.
Potrete facilmente immaginare
la sofferenza mia, di che coraggio,
di che fermezza abbia avuto bisogno
per sopportare con rassegnazione
il progressivo, continuo aggravarsi
e peggiorare della situazione.
Pure, il buon Dio mi ha concesso una grazia
e lo prego, piuttosto, e lo ringrazio
che tutto sia finito per il meglio,
poiché serenamente lei è morta,
così serena ha rassegnato l’anima
che una piuma era piombo, al suo riguardo.
Nei tristi casi tre cose mi han dato
conforto: l’assistenza che mia mamma
ha dato alla mia nonna ogni momento,
finché ha esalato l’ultimo respiro;
l’aver quasi assistito alla sua morte
attraverso il racconto di mia madre
(ché, quand’è morta, mi trovavo a scuola):
una morte sì lieve e così bella –
dopo tanta inaudita sofferenza –
che mi ha fatto capire al primo istante
quanto felice fosse divenuta
e quanto più felice sia di noi,
al punto che ho desiderato anch’io
di partir via con lei in quell’istante.
Da questo desiderio, questa brama
è nato il terzo spunto di conforto:
la certezza che non l’abbiamo persa
per sempre, che la rivedremo ancora
e che saremo insieme più contenti
di quanto siamo stati in questo mondo.
È solo ora il momento che ignoriamo,
ma ciò non mi può fare più paura:
quando il buon Dio vorrà, lo vorrò anch’io.
Ma resta questo vuoto che m’offende.
Non so spiegarvi le mie sensazioni,
è una specie di vuoto che mi duole,
che mi fa proprio male, un desiderio
che neanche in parte viene mai appagato
e quindi non si placa mai; è incessante
come quando ti ronzano le orecchie
e cresce sempre ormai di giorno in giorno.
Lo so, più non m’avanza che lagnarmi
ognor così: ho perduta la speranza
di ritornar felice un giorno solo.
Felicità, per te se invan degg’io
piangere sempre e sospirar, pietosa
tronchi la morte questo mio penare.
Né dimentico a volte gli altri due
che sì simili a me volle il destino
(potesse la lor fama esser la mia):
Tamìris e Meònide, e con loro
Tirésia e Fineo, profeti antichi;
di pensieri mi nutro che in me muovono
note armoniose, simile all’uccello
che canta nel crepuscolo, e nascosto
intona la notturna melodia.
Così con l’anno tornan le stagioni;
ma a me non torna più il radioso giorno,
né il dolce approssimarsi della sera,
l’aprirsi del mattino in un miracolo,
la vista dello sboccio a primavera,
la rosa dell’estate, il dolce canto
dei grilli o il volto divino dell’uomo;
solo una nuvola di malumore,
atrabiliare tetra mia condanna,
una perenne oscurità m’è intorno
come se fossi cieco e non vedessi
e sono mio malgrado un esiliato
dalla vita felice degli umani,
ed invece del libro di sapienza
mi appaiono un deserto vuoto l’opere
della Natura, per me cancellate
e mi è negato ingresso alla saggezza.
Seguir vorrei ogni umano consiglio,
ma nei miei casi come riuscirvi?
Ho il capo frastornato, conto a forza,
lo sento a quel ch’io provo, l’ora suona,
sono in procinto di spirar, finito
prima d’aver goduto il mio talento.
La debolezza vuota d’ogni cosa
serpeggia per le membra, e mi fa male.
Son attutiti i sensi e le passioni
camminano leggere su tappeti,
senza più far rumore: ogni piacere
m’è indifferente, ed il volto divino
dell’uomo si dissolve in un vapore
di lampi e ghirigori, senza centro.
Si tratta di qualcosa che m’è interno,
come il presagio d’una morte oscura.
Trentasett’anni in morta speme io vissi
di giunger pur un giorno di lumiera,
ed or che omai s’appressa la mia sera
rileggo i versi che, dolendo, io scrissi.
Vi trovo d’aspre rocce una scogliera,
nel pieno del meriggio nera eclissi
e i dolci motti che d’affetto dissi
pàionmi un’atra e stracciata bandiera.
O Fato a me sì ingrato, o Vita, o Sorte,
pregni di pianto e di mesti sospiri,
vostro veleno amaro quant’è forte
al solo rimembrar spenti martìri!
Onde te invoco solamente, o Morte,
che spenga i disviati miei desiri.
Soffoca in me ogni pianto, e mi tramuta
in qualche cosa di nuovo e di strano,
ché tutte le altre vie tentate ho invano
e da stanchezza è l’anima premuta.
(Deh vieni, oh non tardare, amata morte…)
E vorrei mantener questo mio broncio
per tutta la durata del Concerto
per cembalo ed orchestra, fino al fine,
e pianto il muso contro il chiar di luna
e al tremolar del mar volgo le spalle.
Ecco qualcosa incògnito, indistinto
cui dar non posso il nome di Destino
sui giorni miei si libra, come l’ala
fremente di un grifagno uccel da preda
che studii le mie mosse, per cibarsi
delle mie carni, quando il tempo giunga.
(Ma non impressionatevi, lettori!
futilità di un attimo: ho scherzato!
Di un altro vi ho parlato, non di me.)
Chi è mai colà, che perde i propri passi
nel verde incolto? Il folto armai lo inghiotte –
di scatto i rami chiudono il passaggio –
nella brughiera smarrisce l’angoscia.
Vorrei che si volgesse! – Egli scompare.
Che può un moto dell’anima a guarire
chi tramutò l’amore avuto in fiele
e preferì il deserto alla bellezza?
Il Bello muore, il Perfetto svanisce –
come fiera ferita ancor s’inoltra
tra pruni e sterpi, e scende ormai la notte.
Non vede i ciclamini che calpesta.
Veloce perde sé nel vuoto attorno –
ormai non vedo più la sua figura
e pianto il muso contro il chiar di luna
e al tremolar del mar volgo le spalle.
E pur ripenso a quell’uomo infelice
che sempre più s’inoltra al limitare
d’una foresta, e pare che pel mondo
sia perso ogni interesse, che un’offesa
irreparabil muova i folli passi.
E provo angoscia per quel pover’uomo
che aveva tempra di vero poeta
e forse ha cancellato in sé ogni cosa:
se più per tempo mi fossi deciso
di andare in suo soccorso – ed era chiaro
che sarebbe finita in questo modo…
Ma son rimasto a limare i miei versi
e i suoi non li ho lodati, benché grande
fosse in me l’entusiasmo pel suo genio;
tardi mi son levato in suo soccorso
ed il mio cellulare, ecco, s’è spento.
Non mi resta che pianger la perduta
Bellezza, e un fior spazzato via dal vento.
Paolo Melandri
13 luglio 2012