Luigi Bosi Le stagioni della memoria *recensione di Emilio Diedo

 

Este Edition, 2011, pp. 240, € 15,00

 

 

In copertina, fotografia di Luigi Bosi

 

Prefazione di Gianna Vancini

 

Luigi Bosi, medico in pensione, quanto a pubblicazioni ha già al suo attivo almeno un paio di bei romanzi (Dove finisce il cielo, 2000; Una manciata di niente, 2007).

 

È un narratore, Luigi Bosi, che sa esprimersi bene sia nel breve e sia nel lungo respiro. Qualora si sia espresso nella performance più lunga del raccontare, ha dimostrato di saperci fare, scrivendo romanzi autentici. Soprattutto ha voluto prediligere tematiche d’interesse etnografico. Questa la sua vera carta vincente.

 

L’ultima pubblicazione d’ambientazione contadinesca, a conferma d’una dislocazione provinciale, anche se più vicina a Ferrara rispetto alla già rispettosamente decantata Comacchio, dove l’ambiente era logicamente marinaresco, dà ancora, e senza smentita, una sferzante pennellata di concretezza storica. L’autore attinge infatti da una realtà imbevuta di folclore, propria d’una precisa epoca e d’uno specifico squarcio culturale definibile popolare, ricamato su una puntuale cornice di dettagli colti in un loro cogente insieme. Mosaico di minimi pezzetti finalizzati alla realizzazione d’un esaustivo collage d’analitica pertinenza. Il lettore si trova in mano dei personaggi ed una loro struttura ambientale d’appoggio in perfetta sintonia. Elementi in assoluta coincidenza con la realtà temporale del narrato.

 

Ed è vero anche che, in queste

 

stagioni della memoria, v’è una protagonista che invece di vestire panni umani è rivestita di genuina ed incontaminata natura: ‘la campagna ferrarese’ («vera "prima donna" di tutta la storia», c.f.r. p. 13, Premessa). Com’è vero del resto che il suo raccontare Comacchio assumeva ad eroina la stessa Città lagunare. Lì erano le valli ed il microcosmo dei pescatori a tenere impegnato il lettore; qui sono il suolo agreste ferrarese ed i contadini (prima mezzadri e poi, grazie ad un colpo di fortuna, misterioso quanto provvidenziale, coltivatori diretti) a ravvivarne la lettura.

 

Circa il fattore-Storia, la ventina d’anni che grossomodo alimentano la trama nella sua diretta e progressiva maturazione (1940-1960 ca) è arricchita da dei flahsback che, spezzando quella che avrebbe potuto essere solo una mera possibilità di monotonia dell’intreccio (ma che, nella riconducibilità visiva della lettura, così non è!), allargano l’orbita temporale del romanzo. In maniera opportuna. Intromettendo un epocale lasso alquanto affascinante per impatto sulla memoria del fruitore (non certamente sul piano più propriamente civico ed umano). Parlo del ventennio fascista, che, proprio nel suo presupposto di dilatazione, impreziosisce il romanzo con stimoli di cui la ‘memoria’ non cessa mai d’essere sazia (visto che è, come avverte il titolo, la memoria ad essere impressionata nella pellicola dell’ipotetico film cui Luigi Bosi ci guida). Probabilmente nella meditativa ricerca d’un’ulteriore consolidata conferma del blasfemo, negletto rapporto di civiltà che il ‘ventennio’ ha significato. È eloquente inserimento d’un racconto nel romanzo. Appendice piacevolissima, molto gradita. Azzeccata per il paradossale contrapposto d’una frammentata conduzione e d’un’unitaria coesione.

 

Ecco che, al di là della terragna Ferrara, localizzata nel fondo cosiddetto della "Sterpata", in località Torre della Fossa, il personaggio Olindo Marchetti, sintonico alla sua bella, variegata famiglia, quasi senza soluzione di continuo, sarà sostituito e perciò superato, per importanza nella trama, dai figli Dante e Viler. Ma la famiglia patriarcale rimarrà tale, unica. Nella grande famiglia, composta dai nuclei familiari dei figli, a loro volta comprensivi delle relative mogli Irma e Cleves, nonché delle loro discendenze, v’è una necessaria corrispondenza ed alternanza anche nel ruolo, quasi comprimario a quello del capofamiglia di turno, che lascia giusto spazio all’arzdóra, la conduttrice della casa, vera regina del focolare. Un ruolo al femminile, necessariamente. Anche questo domestico ruolo soggiace all’ineludibilità dinastica, al passaggio dal vecchio al nuovo. Giungendo così ad un marcato svincolo, irreversibile, tra l’antico ed il moderno (viene soppiantata la coltivazione della canapa in favore della frutticoltura; vengono dismesse, e vendute, le mucche a tutto vantaggio delle macchine agricole e di tanti altri più pratici presidi – di conseguenza è pur vero che il bovaro rimane disoccupato).

 

Nella dicotomia narrativa che consente l’innesto dell’esperienza fascista, la figura sui generis di Aldo, fratello di Olindo, permette a sua volta l’elevazione (non proprio etica, semmai squisitamente avventuristica) d’un parallelo protagonista, arruolato nella milizia e che innalza la qualità della narrazione, proponendo una fervida ripresa d’una commovente memoria.


 

 

emiliodiedo@libero.it