Quale antropocentrismo?
Nei tempi correnti mantenere un orientamento coscienziale e sapienziale è il bene più prezioso. Proprio nel momento in cui si afferma l’egemonia della “ragione” scientistica (una forma di abilità intellettuale assai circoscritta), al servizio delle più insaziabili brame di possesso, il mondo sprofonda nei baratri dell’irragionevolezza.
Si deve innanzitutto chiarire come sia drasticamente irragionevole quell’epistemologia che, rifiutandosi di vedere il proprio limite, non si risolve in una forma di intelligenza superiore. Quale tragica ironia: nel nome del progresso e di un’inarrestabile evoluzione dell’ingegno umano siamo regrediti nel subumano o, meglio, abbiamo deviato dal dharma propriamente umano, producendo una specie di mostro onnivoro e distruttore.1
Ai fini di una corretta disposizione conoscitiva, non si tratta però di affermare o negare drasticamente l’antropocentrismo, bensì di riflettere più profondamente su di esso, restando aderenti ai princìpi che presiedono alla realtà del mondo dei nomi e delle forme (namarupa), pur intuendone la trascendenza nel Sovraformale. La tendenza attuale sembra invece essersi impantanata in una contrapposizione tra atteggiamenti estremi. Da un lato, si pone al centro un anthropos che, pur dimentico della propria dimensione ontologica, crede di soverchiare la natura, sfruttandola come una cosa distinta da sé; dall’altro, si pretende di curare il male derivante da tale errore, livellando “olisticamente” tutti gli esseri in un unicum di natura biologica. Sono due facce della stessa medaglia. In entrambi i casi si tradisce la dottrina tradizionale, apparentemente paradossale, delle due verità, quella assoluta (paramarthika) e quella relativa (vyavaharika), e la discriminazione viene negletta.
Impostare la questione della minaccia di autodistruzione che grava sull’umanità nei termini di una scelta tra antropocentrismo e biocentrismo2 è, secondo chi scrive, sbagliato e fuorviante. Se è pur vero, infatti, che l’uomo, in quanto entità identificata in una successione di guaine (kosha) o corpi gerarchicamente ordinata, vive all’interno della natura, non si deve dimenticare come egli, nel contempo, custodisca al centro di sé, almeno a livello potenziale, la totale consapevolezza di unità con l’Essere: «[…] l’uomo è duplice – sostiene Hermes Trismegistus nel “Pimandro” –, mortale nel corpo, immortale nella sua essenza. Immortale e sovrano di tutte le cose, è sottomesso al fato che governa ciò che è mortale».3
In margine, val la pena notare come l’“Essere” venga qui inteso non come polo dell’ennesima dualità, essere-non essere, bensì come Assoluto o “Senza Superiore”, per dirla con Abhinavagupta. Essere, senza alcuna aggiunta o sottrazione, è la nostra unica certezza ed è assurdo ed arbitrario affiancarvi l’astrazione del “non essere” per indicare il Quarto (Turiya), lo “stato” della realtà assoluta. Semmai, nel riferirsi all’Essere qualificato (saguna), che si manifesta e diviene, si dovrebbe parlare di “esistere” (ex-sistere): la potenza-volontà-natura-shakti che dall’Essere emerge, su di esso si fonda e in esso si risolve.
Riprendendo il filo del discorso e rivolgendoci ai sostenitori dell’ecocentrismo, va sottolineato quanto segue: è l’uomo che, in ogni caso, indaga sull’intelligenza degli animali, che elabora le più svariate teorie ecologiche, che propone di abbattere le differenze tra uomo e animale o che, infine, proiettando al negativo la propria superiorità intellettuale, produce armi terribili capaci di evertere l’intero pianeta. La negazione oltranzista dell’antropocentrismo può essere paragonata, in termini logico-metafisici, alla sconclusionatezza di un “io” che dichiari di non essere. Così come risulta palesemente inaccettabile che il soggetto asserisca: “non sono”, ugualmente errato è che l’uomo utilizzi le facoltà intellettuali e spirituali che lo distinguono da tutti gli altri esseri viventi per negarne la specificità, uniformandosi verso il basso, nell’indifferenziato. Il nocciolo della questione non sarà allora chiedersi: “sono o non sono?”, bensì: “chi sono?”, “quale o che anthropos sono io?”.
In termini di tradizione religiosa, l’uomo, a differenza di tutte le altre forme di vita terrestri, è dotato di libero arbitrio, poiché può scegliere tra l’assecondare la Legge (Dharma) e il contrastarla.4 Pertanto, mettere in discussione la supremazia della sua posizione coscienziale, attestando la centralità della vita biologica, alla quale soltanto in parte egli appartiene, è uno sforzo che appare inutile, insensato e foriero di temibili sviluppi. Non a caso, presso la tradizione del Sanatana Dharma, la nascita nella sfera umana (manava loka) è considerata nodale ai fini della liberazione dalla nescienza samsarica.
In termini simbolici, nei Tantra si afferma che è soltanto attraverso il passaggio in 8.400.000 nascite inferiori che si accede allo stato umano. Nel “Kularnava Tantra” si legge: «Parvati, il corpo umano è il più importante degli 8.400.000 tipi di forme fisiche, perché è in quella forma che si può realizzare la conoscenza dell’Essenza. La conoscenza dell’Essenza non si può ottenere in un’altra forma se non in quella umana».5 E ancora: «Dormire, mangiare, bere, copulare e cose del genere sono comuni a tutti gli animali. Solo l’uomo possiede la conoscenza, e chi ne è privo è simile ad una bestia».6 Non si può certo sostenere che tali Scritture, indicanti in ultima istanza l’illuminazione non duale, non siano espressioni di una mentalità arcaica (che alcuni rappresentanti dell’ecologia profonda associano al cosmocentrismo od ecocentrismo); anzi, in termini di antichità, parrebbe che, se pur stese in tempi relativamente recenti, le loro radici affondino in un humus spirituale pre-vedico. Malgrado ciò, esse testimoniano una spiccata sensibilità antropocentrica di natura assai diversa da quella prevalsa in Occidente. E non si può nemmeno sostenere che esse promuovano sentimenti di disprezzo o di violenza verso gli animali e le altre forme di vita; emblematici in proposito sono i seguenti sutra, sempre tratti dal “Kularnava Tantra”: «Mia cara, chi uccide illecitamente animali per fini egoistici trascorre all’inferno tanti giorni quanti sono i peli sul corpo dell’animale ucciso, e alla fine quella persona malvagia rinascerà in forma animale. […] Non bisogna spezzare neppure un filo d’erba senza motivo. Se invece si seguono le ingiunzioni delle scritture non si commette peccato neanche se si uccide un toro o un bramino».7 A parte il fatto che, in linea di massima, il concetto di “peccato” è estraneo alla tradizione indiana (meglio sarebbe sostituirlo con “errore”),8 il vegetarianismo e la non violenza che emergono dalle citazioni riportate hanno ben poco a che vedere con le ideologie omonime, sorrette da istanze prettamente igienico-scientifiche o sentimentalistiche, diffusesi in Occidente. Scrive il maestro advaitin francese Jean Klein: «Tutti gli atti violenti sorgono, di massima, da uno stato egotico. L’uomo senza ego è dunque non violento. Ma non bisogna fare della non-violenza una specie di tabù. Ci sono dei casi precisi in cui l’uso della forza, della coercizione, anche violenta, si impone. In questo caso l’uomo senza ego utilizzerà la forza e agirà in apparenza come i violenti. Ma beninteso non agirà che in apparenza perché il suo atto sarà completamente estraneo al desiderio e al timore. È in questa prospettiva che Krishna consiglia ad Arjuna di combattere per fare il suo dovere di Kshatriya».9
In India si sa che la vita si nutre di se stessa e che quindi è impossibile non uccidere tout court o non essere uccisi. Nella “Taittirya Upanishad” si legge: «[…] Io sono il cibo! Io sono il divoratore del cibo! […] Io sono l’unificatore! Io sono il primogenito dell’ordine cosmico! […] Io che sono il cibo divoro il divoratore del cibo! Io supero l’intero universo! […] Così è la dottrina segreta».10 Perciò, per l’uomo che aspiri all’armonia con l’ordine universale e a cui ripugni impartire sofferenza superflua non si tratta di scegliere tra l’uccidere o il non uccidere, bensì di attenersi all’indispensabile. Per comprendere in che cosa consista l’“indispensabile” ci si deve rivolgere alla propria coscienza, poiché è da folli pensare che, in ambito comportamentale, sia possibile imporre regole valide per tutti. Quando, non importa se in nome della pace, della democrazia, della religione o del rispetto per il vivente, ci si arroga la facoltà di rinchiudere entro rigidi schemi concettuali e di costume, supposti universalmente validi, l’infinita complessità dell’esistenza si accresce inevitabilmente la violenza. La bolgia di conflittualità e barbarie in cui si dibatte l'umanità storica è proprio il risultato di tale condotta.
Sviluppando il precedente accenno alla dottrina delle due verità, va evidenziato come la “supremazia” alla quale qui ci si riferisce sia relativa, giacché si esprime all’interno di un’ottica umana, parziale, dalla quale tuttavia non si può prescindere senza prima averla esaurita; per contro, essa decade se, poggiandosi sul nóus (la parte più sottile e intuitiva della mente), si adotta un’ottica metafisica, sovrumana, secondo la quale l’Essere onnipervadente è affatto consapevole di Sé in ogni atomo di vita. In altre parole, da un punto di vista fenomenico è inevitabile esprimersi in termini gerarchici, mentre invece da un punto di vista noumenico vige l’identità assoluta, non duale. Rivolgendosi a quelli che, in nome della vacuità, rifiutano «[…] l’esistenza reale dei frutti, il bene e il male morali e tutto l’ordine pratico delle cose»,11 Nagarjuna afferma: «L’insegnamento della legge da parte degli Svegliati si svolge in base a due verità: la verità relativa del mondo e la verità assoluta. […] La realtà assoluta non può essere insegnata senza prima appoggiarsi sull’ordine pratico delle cose […]».12 Se ne deduce che, sul piano della molteplicità, rifiutare la distinzione gerarchica tra uomini e animali sia un’incongruenza, dalla quale emerge un uomo contemporaneo viepiù miserabile, dato in pasto ai demoni della confusione e del non senso.
In un articolo intitolato “Siamo proprio sicuri che gli animali siano soltanto i nostri ‘fratelli minori’?”, Francesco Lamendola si domanda: «minori rispetto a che cosa?» e, dopo aver constatato come secondo la communis opinio sia la facoltà razionale a segnare la distinzione, afferma: «Questo ragionamento ha il difetto di assumere un’ottica puramente antropocentrica: una volta scelta, per così dire, la facoltà che contraddistingue la superiorità umana rispetto all’animale, la si isola da tutte le altre e la si assolutizza, in modo da ottenere la facile conferma di quello che era, in realtà, un pregiudizio, ossia un giudizio anteriore a qualsiasi verifica: in questo caso, che l’uomo occupa una posizione di eccellenza ontologica nel contesto della natura».13 A ben riflettere però, quale altra ottica potrebbe adottare l’uomo se non la propria? Certo, è un grave errore assolutizzarla, ma, in prospettiva relativa, essa si impone, sia per proclamare che per confutare i suoi stessi contenuti. Quando il sostenitore dell’ecologia profonda invita a “pensare come una montagna”, non si discosta dal pensare umano; come potrebbe avvenire diversamente? Per “pensare come una montagna” bisogna “essere” la montagna, il ché implica l’aver svelato in sé il Purusha, l’Én to Pán (l’Uno Tutto) degli antichi Misteri iniziatici. Inoltre, è proprio l’eccellenza ontologica caratterizzante l’uomo a permettergli di riconoscere la relatività della propria preminenza e a discriminare tra le due verità. Agli animali, per quanto essi siano ricettacoli di coscienza e di vari gradi di intelligenza e meritino il più scrupoloso riguardo, ciò non è palesemente dato.
Guido Dalla Casa, esponente di spicco dell’ecologia profonda in Italia, commentando l’articolo di Lamendola, dichiara che non si dovrebbe fare nessuna distinzione tra umani e animali. Cito testualmente: «Per secoli, nella cultura occidentale, l’idea di “umanità” è stata vista in contrapposizione con quella di “animalità”: questa opposizione oggi è insostenibile da tutti i punti di vista, soprattutto da quello scientifico-filosofico. Ora sappiamo che l’uomo è a tutti gli effetti un animale, anche facilmente classificabile».14 In un altro suo scritto lo stesso Autore sostiene: «È ormai noto alla scienza, fin dai tempi di Lamark, cioè da un paio di secoli, che l’uomo è una specie animale a tutti gli effetti […] Le differenze genetiche fra un umano e uno scimpanzé bonobo sono dell’ordine dell’1%. […] Ricordo benissimo di aver letto, una trentina di anni orsono, che uno scienziato aveva condotto un esperimento di fecondazione “in vitro” che interessava due gameti, di cui uno umano e l’altro di uno scimpanzé. In uno dei tentativi la fecondazione era riuscita e si era sviluppato un embrione in vitro, in fase molto iniziale. Non ho alcuna garanzia sulla veridicità del fatto, ma non mi sembrerebbe una cosa tanto strana. […] Era un’evidenza in più della nostra completa appartenenza alla Natura, se pure ce ne fosse stato bisogno».15 I nefasti sviluppi ai quali accennavo antecedentemente sono impliciti nelle citazioni or ora riportate: vi si afferma il predominio della quantità sulla qualità, e poi, da sotto il velo delle parole, traspare una forma spaventevole di totalitarismo scientista – omologante scienza empirica, religione, filosofia e metafisica – perpetrato pur sempre da un consorzio di umani in situazione dominante.
Una volta che si sia assodato come, sul piano del Manifesto, l’uomo non possa essere scalzato dalla sua posizione focale e quindi dalla sua responsabilità di “custode”, la questione va posta in altri termini: quale anthropos sta al centro? L’uomo ridotto a mente dicotomica, azione reattiva e identificazione nel corpo denso, oppure l’uomo integrale, comprensivo di buddhi (l’intelligenza noumenica), corpo causale e consapevolezza ineffabile, non duale? Il modus operandi dei due è assai diverso; Dom Pernety, nella sua celebre opera “Favole egizie e greche”, ne riassume eloquentemente la differenza: «La chimica volgare è l’arte di distruggere i composti che la natura ha formato, mentre la chimica ermetica è l’arte di lavorare con la natura per perfezionarli».16 Il primo, nella sua miopia egotistica, vede la natura come un oggetto da sfruttare, manipolare e, sentendosene il padrone, non si perita di disprezzarla, violentarla e distruggerla; il secondo, avendo estinto l’ignoranza interiore da cui procede la separatività, la vede a guisa di un’indefinibile vibrazione divina (alla quale egli stesso appartiene in veste di ente condizionato), emanazione del Sé-Brahman, fonte inesauribile di ispirazione e di insegnamento, trampolino dal quale il Sovrasensibile immanente in lui (Jivatman) può riedere alla Verità suprema, balzando nell’Ineffabile (Paramatman).
Innegabilmente oggi domina la prima forma di antropocentrismo. Lo si deve ammettere: l’uomo che pretende di dominare con pugno di ferro il mondo o che, al limite opposto, brama di portare sino alle sue estreme conseguenze il processo di sovversione della Norma, appiattendosi sulla posizione degli animali, è l’ombra dell’ombra di se stesso; in altre parole è un uomo decaduto dal suo status di consapevole epifania numinosa.
Individuare chiaramente la malattia è premessa indispensabile alla ricerca del rimedio. Ciò tuttavia richiede coraggio, intelligenza, giusta visione e onestà intellettuale. Una volta che si siano comprese infermità e cura, si deve mettere in pratica la propria comprensione. Da simile coerenza scaturisce spontaneamente un potere sul quale non è possibile imprimere alcun marchio monopolizzatore. Il potere che detenevano gli antichi faraoni, indicato simbolicamente dall’ankh, la croce ansata, o che irradiava dai mitici chakravartin, non aveva nulla di egoistico né di immaginario, poiché apparteneva al Purusha, l’Uomo cosmico. Ed è unicamente questa forma sublime di sovranità o di saggezza che può affrontare e risolvere le forze oscure destate dai moderni “soffiatori”. Con un corretto orientamento intellettuale se ne può preparare l’emergere, ma senza un’autentica sadhana (disciplina spirituale purificatrice), suscitatrice di tapas (il calore o fuoco ascetico), non lo si può evocare in modo compiuto.
L’enorme potenza distruttiva, irresponsabilmente attivata dai “soffiatori” – che in “Finis gloriae mundi”, la cui attribuzione a Fulcanelli è incerta, vengono chiamati “demiurghi americani” –,17 non può essere contrastata sul suo stesso livello. In un recente articolo dello studioso di geopolitica Mahdi Darius Nazemroaya si legge: «La natura delle guerre moderne si basa sull’usurpazione delle risorse naturali e della ricchezza delle nazioni. Così, queste guerre sono guerre materialiste, combattute sia per motivi strategici che per acquisire ricchezza e potere o per usurparli direttamente. Ogni quadro ideologico è usato per ingannare le masse. Queste guerre sono dunque degli atti criminali. […] Il globo si trova ad affrontare uno stato di escalation militare in tutto il mondo. Ciò che si profila di fronte all’umanità è la possibilità di una guerra nucleare totale e l’estinzione della maggior parte della vita su questo pianeta, come la conosciamo».18 Il panorama geopolitico che ne emerge sembra purtroppo assai verosimile e trasmette lì per lì un’inquietante sensazione di impotenza; tra l’altro, si può ben credere che la realtà sia ancor più terribile di qualsivoglia immaginazione.
Ciononostante è un imperativo avvalerci con incrollabile fiducia degli unici “strumenti” rimasti a nostra disposizione: la discriminazione (viveka) tra reale e apparente, noumeno e fenomeno, l’intuizione del Sommo Bene, la Conoscenza metafisica19 – superiore, benché non opposta, all’acquisizione eruditiva o ad un’onesta conoscenza scientifica – e l’Amore senza oggetto che, come il calore dalla fiamma, emana dal sapere chi si è.
Giovanni Sessa nota: «Solo la coscienza ordinata, in sintonia con i ritmi cosmici, può divenire, a sua volta, ordinante e costruire intorno a sé una comunità che testimoni realmente l'esistenza, oggi negata dai più, di una filosofia del divino e dell'ordine».20 La coscienza ispirata dall’Arché non separa irrimediabilmente il Manifesto dall’Immanifesto, ma nell’incessante modificarsi del primo coglie la presenza del secondo, il Sostrato immutabile, il quale formalmente si esprime e diviene senza mai diminuire o intaccare se stesso. Tale coscienza vibra altresì con un’intensità incomparabilmente superiore a quella di chi si lascia plagiare dai luoghi comuni diffusi con consumata abilità dai manipolatori ciechi dediti al cosiddetto “Grande Gioco”; e nemmeno questi ultimi, intenti nel loro effimero baloccarsi, la possono uguagliare. Qualità e quantità non sono espressioni di una polarità contrapposta e complementare, ma valori gerarchici: un solo pane vero non potrà mai essere sostituito da nessuna cifra, per quanto astronomica, di pani dipinti.
Sempre a proposito della “libertà” caratterizzante l’uomo, Jean Phaure scrive: «[…] la maggior parte degli uomini la rifiuta, se ne sbarazza con tutti i meccanismi, coscienti o meno, dei multiformi e confortevoli conformismi: bisogna “fare come tutti”, legarsi a tale “partito” […] vestirsi in tale modo, ripetere tali idiozie al “vento” […] Il sentiero climatizzato, illuminato dal neon e nimbato da musica dolce che va verso il mattatoio comune, è evidentemente più “confortevole” del sentiero libero e in piena luce che bisogna aprirsi faticosamente da sé».21
Sì, per elevare lo stato di coscienza dell’uomo, risvegliandolo alla sua più intima verità di Purusha, occorre far leva su se stessi. Come insegnano con modalità diverse le varie dottrine tradizionali, la mente va pacificata, le scorie della passionalità e dell’attaccamento vanno sublimate, il contesto familiare, sociale o naturale in cui si vive non va rigettato ma accordato. Persino il “mio”, derivante dall’ahamkara, il senso dell’io separato, una delle quattro funzioni dell’organo interno (antahkarana), va trasceso. Scrive Abhinavagupta nella “Paratrimshikatattvavivaranam”: «Quello stesso pensiero “nulla è mio” per cui le sciocche creature sogliono credersi in povertà, questo stesso pensiero “nulla è mio, io sono tutto” fa sì che io risieda nella suprema libertà».22
Dai pochi cenni testé proposti, non sarà difficile intuire quali enormi difficoltà dovrà affrontare l’individuo che, immerso nella temperie contemporanea, aspiri ad un giusto orientamento. Per prima cosa, occorrerà che egli si sottragga al fascino della logica del sasso che cade, propria all’uomo-massa, e, una volta recuperata una consapevole personalità – assimilabile alla realizzazione dello svadharma e inseparabile da un uso completo della ragione –, la dovrà restituire, sacrificare al Dharma universale, a quell’“ottava sfera” delle stelle fisse indicata nel cammino ermetico, ma pure presente nei misteri mitraici, in cui si intravede il mondo divino e immutabile: «E infine, essendosi spogliato di tutto ciò che lo avvolgeva nella struttura celeste, egli ascende alla sostanza dell’ottava sfera, ove entra in possesso del suo vero potere».23
Al “potere” cui qui si allude ritengo metta conto dedicare alcune parole di chiarimento. Esso, infatti, non ha nulla in comune con la sua accezione ordinaria: facoltà di fare, di influenzare l’ambiente e gli altri dal punto di vista di un “io” contingente. Piuttosto, il “potere” che la sapienza ermetica addita ha a che vedere con quel “nulla è mio” del quale dice Abhinavagupta poco sopra. «L’uomo che raggiunge il Tao è ignorato dal mondo; l’uomo che possiede la virtù perfetta non ha successo; il grande uomo è senza io»,24 afferma Chuang Tzu, riferendosi ovviamente all’“io” temporale, e ciò vale anche nel caso in cui il Realizzato si trovi in una condizione di visibilità e di autorità. Il “potere perfetto” non può essere esibito, non coincide con l’azione intesa in senso dualistico, supera ogni polarità – esprimibile-inesprimibile, visibile-invisibile, formale-informale – e procede, in ultima istanza, dalla Conoscenza per identità, di là dalla dimensione principiale.
In sintesi, bisogna ammettere come in questo scorcio di Kali-yuga non sia più il momento di ricorrere a palliativi, a blandi ripieghi o a una fuga nella regressione coscienziale, procrastinando l’unica soluzione efficace; il morbo (variamente definibile: avidya, dimenticanza di Sé, peccato contro lo Spirito, orgoglio separativo, ecc.) che ha ridotto l’uomo in uno stato di abiezione va risolto alla radice. Gli esseri umani devono tornare a votarsi – non costretti, bensì persuasi dalla visione orripilante della propria stupidità, stimolati dalla propria dignità ontologica o ispirati dall’esempio di grandi anime – allo svelamento del significato ultimo. Allora il Cielo, la Terra e la Natura intera25 tireranno un respiro di sollievo, ritrovando equilibrio ed armonia, poiché a tutti gli enti, animati e inanimati, sarà permesso di ritornare alla loro essenza originaria.
Giuseppe Gorlani
*saggio anche pubblicato in siti blog- (ecc.) Rassegna Stampa di "Arianna" e... Associazione Eco-filosofica di Treviso
1 «[…] gli uomini sono caduti oggi nel determinismo delle leggi fisiche, biologiche, genetiche, etc., e nella tirannia del “subcosciente”. È l’involuzione agnostica della nozione di causalità. E a questo determinismo soffocante non abbiamo da opporre che una nozione vaga, informe, confusa (e anti scientifica!): il caso. Bel progresso!», Jean Phaure, “Mistero e Origine del Male alla luce della Tradizione”, a c. di Aldo La Fata, A.L.F., Roma 2010, pp. 75,76.
8 «Quello che si chiama male o ingiustizia non è in fondo nient’altro che un errore. Più precisamente una ignoranza», scrive Jean Klein in “Sii ciò che sei”, Ediz. Savitri, To, p. 91.
11 “Le stanze del cammino di mezzo ( Madhyamaka Karika)”, XXIV, 5-6, a c. di Raniero Gnoli, Boringhieri, To 1968.
18 Mahdi Darius Nazemroaya, “La prossima guerra mondiale: il “Grande Gioco” e la minaccia della guerra nucleare”, Rassegna Stampa di Arianna del 14.01.2011.
19 L’unica alla quale, si badi bene, è lecito attribuire le qualità di sovrannaturale o sovrumana. Riguardo all’impianto dottrinale essenziale del Vedanta e alla distinzione tra “naturale” e “sovrannaturale”, si veda Raphael, “Fuoco di Risveglio”, Ediz. Asram Vidya, Roma 2002.
20 Giovanni Sessa, recensione a “Uomo e Natura” di G. Gorlani, Tn 2006, in “Letteratura – Tradizione” n. 40, Heliopolis ediz.
22 Raniero Gnoli, “Il Commento di Abhinavagupta alla Paratrimsika”, Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, Roma 1985, p. 38.
23 “Occidente segreto”, a c. di Jay Kinney, Fazi edit., Roma 2007, p. 130, citaz. dal “Pimandro” di Hermes Trismegistus.
24 “Zhuang-zi [Chuang-tzu]”, a c. di L. Kia-hway, Adelphi ediz., Mi 1982, p. 146. Con la locuzione “senza io” si vuole negare l’identificazione unilaterale nell’io contingente a cui soggiace l’uomo ottenebrato.
25 Secondo il Vedanta, il concetto di “Natura” è assai ampio e coincide con il Manifesto, l’aspetto qualificato (saguna) del Brahman.