Vittorio Sgarbi: lezione futurista al rudere Agosti

 Roma, lunedì 28 novembre 2011

 

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Il critico d’arte sul libro «Le rovine di Milano»

Sgarbi risponde ad

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Agosti:

«Da lui solo livore e astio»

«Giudizi conformistici, presunzione, disprezzo per chi esprime un gusto diverso dal suo…Malignità, perfidie, tipiche di chi è frustrato, e si compiace degli errori e delle difficoltà altrui. Quelli di assessore alla Cultura a Milano

- ricorda Sgarbi - sono stati due anni di intensa e febbrile attività, che non potranno essere cancellati dalla supponenza e dalla disonestà intellettuale di chi critica gli altri e dimentica il conflitto di interessi che lo vuole curatore della mostra di Giulio Romano per conto del Comitato Scientifico di Palazzo Tè di cui fa parte. Qualcuno dovrà dirglielo. Per evitare le rovine di Mantova»

 

ROMA

– Vittorio Sgarbi risponde a Giovanni Agosti, autore del libro «Le rovine di Milano» (edito da Feltrinelli), in cui il critico d’arte e sindaco di Salemi viene chiamato in causa per il suo incarico di assessore alla Cultura a Milano dal 2006 al 2008.

 

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Il libretto «Le rovine di Milano» di Giovanni Agosti è un esempio di livore e astio. La quantità di menzogne e di interpretazioni tendenziose rende il libro godibile per chi ama il pettegolezzo in chiave maliziosa, con un retrogusto omosessuale, e con il compiacimento di vedere sempre l’aspetto negativo delle cose.

Naturalmente ad Agosti piacciono un po’ le cose ovvie, consacrate dalla moda e dal mercato. Così plaude alla Pivi, a Cattelan, ad Althamer. E pone in luce sinistra il lavoro che non capisce e il mercato che non controlla.

 

Naturalmente tra i suoi ammirati c’è Gianni Romano, di cui dimentica il conflitto d’interessi che lo portò a proporre al Comune di Torino per una cifra 15 volte superiore a quella di acquisto di un piccolo crocefisso attribuito a Giambologna (e in realtà dell’ambito del Susini), ponendosi in equilibrio tra esperto dell’antiquario e consulente de Comune. Sono questi i modelli cui Agosti si ispira, disprezzando tutti quelli che non appartengono alla sua consorteria; mentre non ci risparmia inutili dettagli extra milanesi, come il prestito mancato del San Giorgio di Mantegna delle Gallerie dell’Accademia di Veenezia al Louvre.

Racconta gli episodi e le occasioni della realtà milanese in modo lacunoso, approssimativo, parziale, ignorando che i finanziamenti per La Scala e per Il Piccolo e le altre spese strutturali assorbono il 90% del bilancio dell’assessorato alla Cultura, e che, quindi, non è un’abiura dello Stato o dell’Ente Pubblico l’utilizzo di coscienziose società di servizi che trovano sponsor e coproducono le mostre: una falsa contrapposizione, un moralismo che, come alternativa, ha solo l’impotenza.

 

Divagazioni, bagatelle, riferimenti all’antiquario Gilberto Algranti alternativi al giudizio sulle cose fatte, rendono il libretto del livoroso autore un piccolo strumento per esprimere ritorsioni, vendette, antipatie.

 

Giudizi conformistici, presunzione, disprezzo per chi esprime un gusto diverso dal suo, come nella liquidazione del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, dall’alto di una superiorità che non si capisce chi gli abbia attribuito, con il falso ideologico che l’arte contemporanea sia un territorio per specialisti, davanti al quale l’incompetente intellettuale, che si può esprimere sul cinema , sul teatro, sulla letteratura, dovrebbe sospendere giudizio e gusto e dichiarare: «Non mi intendo di arte contemporanea».

 

L’illustre Giovanni Agosti può parlare di Giovanni Frangi, il modesto Ferdinando Bologna deve astenersi. Questo è il metodo.

 

Non si salvano neanche collezionisti come Koelliker di cui si immagina un disfacimento delle raccolte che non c’è stato, in seguito alla legittima vendita di qualche dipinto.

 

Malignità, perfidie, tipiche di chi è frustrato, e si compiace degli errori e delle difficoltà altrui. Il Pascoli scriveva: «Gli uomini preferiscono il male altrui al bene proprio».

 

Agosti è felice di avere davanti le rovine di Milano e propone una ricostruzione fondata sul suo diritto ideologico. Prima di lui erano predistinati a fare male. Per quello che lo riguarda, «nel campo della cultura la cosa più importante prodotta a Milano durante l’amministrazione di…(che non vuole affatto dire "da…") Letizia Moratti, cioè tra la primavera del 2006 e quella del 2011, è il Tristano e Isotta di Wagner, diretto da Daniel Baremboin e messo in scena da Patrice Chéreau, con le scene di Richard Peduzzi. Lo spettacolo ha debuttato alla Scala il 7 dicembre 2007; solo lì ho avvertito - in questo tratto di storia - il riannodarsi dei fili con una grande tradizione espressiva e civile, prima consueta a Milano e oggi perduta».

Si trattava di una grande mistificazione, e di un tradimento di Wagner nel nome di un populismo ideologico. Ma, al di là dei gusti, Agosti dimentica che quella messa in scena costò circa 2 milioni di euro, buttati per il piacere di qualche migliaio di ricchi, alla prima e nelle repliche alla Scala. Sono così i nostri rivoluzionari, fanno la rivoluzione con i soldi dei capitalisti. E gli altri, che lavorano senza soldi, lo fanno per oscuri interessi e intrallazzi.

 

Davanti a una mostra importante e utile come «Gli occhi di Caravaggio», il pettegolo si preoccupa dei rapport fra Sgarbi e la Moratti «sotto lo sguardo benevolo di Silvio Berlusconi», e, sconclusionatamente, commenta: «Di fronte a tutto questo da parte del Comune, lo Stato, nella figura della Sovrintendenza, cioè degli organi preposti alla tutela delle opere d’arte, non è riuscito purtroppo a rappresentare a Milano un sponda adeguata di resistenza». Ma va là. In questo affannarsi Agosti dimentica occasioni memorabili e impegnative come le belle mostre di Boccioni e di Balla, di Bacon, dell’Arte delle Donne, di Witkin e Saudek, di Weegee, di Frank, di Von Gloeden, di Ferroni e di Guccione (certo non grandi come Frangi !), di Tamara de Lempicka, dei Canova dell’Hermitage, di Fabio Novembre, di Bruno Munari, di Dino Buzzati, di Vivian Westwood, di Hopper, del Quarto Stato, mai visto come a terra nella Sala delle Cariatidi. E dell’omaggio a Elio Pagliarani, della mostra di Mattew Spender, e del Festival Mito, e di infinite altre occasioni.

 

Insomma, due anni di intensa e febbrile attività, che non potranno essere cancellati dalla supponenza e dalla disonestà intellettuale di chi critica gli altri e dimentica il conflitto di interessi che lo vuole curatore della mostra di Giulio Romano per conto del Comitato Scientifico di Palazzo Tè di cui fa parte. Qualcuno dovrà dirglielo. Per evitare le rovine di Mantova».

 

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