"La giacca del Gundel" intervista a Claudio Strano, scrittore e giornalista

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INTERVISTA A CLAUDIO STRANO

 

D. Strano, dagli anni ’80 un nome ricorrente nel panorama ferrarese letterario più sperimentale.

R- La parola “sperimentale” nel mio caso ha una qualche attinenza se riferita al piano linguistico. Per il resto vengo da una formazione classica dalla quale ho ereditato, credo, un certo senso del sacrale, del rispetto dell’insegnamento dei maggiori, l’istinto a scandagliare il profondo dell’animo umano ma anche le idee che muovono noi, scimmie presuntuose, sulla scacchiera del mondo. La leggerezza calviniana mi pare un tratto caratterizzante della nostra epoca letteraria e non solo, la considero anzi un “lezione permanente” del grande scrittore italiano, ma è il sottosuolo che mi affascina nel senso più esistenziale e filosofico che non dostoevskijano. Gratta gratta penso ci siano mondi sconfinati relegati nel “non detto”quotidiano che solo la letteratura, ieri come oggi, può svelare ai nostri stessi occhi stanchi per il predominio dall’esteriorità. Credo sia questo il principale compito della letteratura, tra i tanti, che la rende immortale a dispetto dei tanti funerali che ha già ricevuto.

 

D- Perché questo titolo, “La giacca del Gundel”, al suo primo romanzo? Di cosa parla?

R- Il Gundel è un famoso ristorante di Budapest, capitale dell’Ungheria, in cui sono stato e dove rischiavo di non entrare essendomi presentato in maglione e non con la giacca d’ordinanza che lì è richiesta. E chi lo sapeva? Agli sprovveduti come me viene fornita, allora, una giacca dal locale, una giacca dunque “indossata da tutti senza essere mai appartenuta a nessuno”, come scrivo nel libro. Mi è parso, fin dal primo momento, un buono spunto letterario su cui incentrare una vicenda a metà fra thriller politico e storia reale documentata, dove la giacca rappresenta una molteplicità di cose che ben poco hanno a che fare con l’eleganza: il formalismo, sì, le convenzioni imposte dalla società, ma anche un modello sociale, il comunismo, da cui l’Ungheria del 2004, alla vigilia del suo ingresso nella Ue, voleva prendere le distanze senza riuscirvi mai pienamente. E ancora, la giacca fornita dal locale è un simbolo della massa, dell’indistinto, delle vecchie e nuove “integrazioni” che attraggono e che fanno paura a seconda dei tempi. Nonché, ovviamente, uno status symbol e una spia dell’intramontabile tema dei dislivelli sociali e del conflitto ricchezza-povertà.

 

D- E cosa capita nel romanzo? Chi sono i protagonisti e quali i riferimenti più alti, se ci sono?

R- Protagonisti del “romanzo di idee”, per dirla con Kundera, sono due uomini (e due generazioni) di ungheresi vittime della storia, entrambi figli del periodo comunista poi travolti dai rapidi cambiamenti della società. Il primo, Gábor, manager emergente, vorrebbe trovare consolazione nei valori del passato. L’altro, Balázs, giovane “esubero” con famiglia a carico, si fa sedurre dall’idea dell’occasione di una vita che, quando capita, bisogna saper cogliere. È uno dei falsi miti dell’Occidente che poi lo porterà alla rovina. Al loro incontro fa seguito un invito al ristorante Gundel dove una giacca fornita dal locale avvia l’azione: ci troviamo tutti all'interno di un grande gioco di ruolo ordito (ma a quale scopo?) da una fantomatica organizzazione che si è rintanata in un museo molto particolare, realmente esistente a Budapest: la Casa del Terrore.

La vicenda, che si sviluppa a cavallo di più generi e forme letterarie, con richiami a due grandi scrittori magiari come Sándor Márai e Peter Esterházy, va a toccare tre città italiane – Venezia, Bologna e Ferrara – viste con gli occhi stupiti della prima volta. In realtà è il pretesto per parlare, tra realtà e allegoria – come suggerisce Zsuzsanna Rozsnyói dell’Università di Bologna, autrice della prefazione – di una data come dicevo molto importante. La data è quella del 2004 che sancì l’ingresso nell’Unione Europea dell’Ungheria e di altri 9 paesi dell’ex blocco comunista. I timori, le paure, le fobie, le crisi d’identità dei singoli e di un intero popolo di 10 milioni di abitanti sono la metafora di situazioni simili nella vecchia Europa. Sullo sfondo, i segnali inquietanti che porteranno all’attualità, con la rinascita di un nazionalismo estremo e i rigurgiti di razzismo.

Temi di attualità anche italiani sono rintracciabili sullo sfondo della storia di Gábor e Balázs: dalla discussione sulla procreazione assistita alla strage degli innocenti (i bambini abbandonati o uccisi), dalle questioni legate all’immigrazione all’incontro/scontro tra culture diverse, alla ricerca di identità sempre nuove e anche sempre incerte.

 

D- Ambientare un romanzo in Ungheria, per uno scrittore ferrarese, non è un po’ come tradire la propria cultura di origine, il territorio che lo ha nutrito e di cui è espressione?

È una domanda che mi sono posto più volte e alla quale rispondo così: non ci sono e non ci possono essere confini, né verticali né orizzontali, all’indagine letteraria e tanto meno in tempi di globalizzazione e di circolazione rapida delle informazioni e delle idee come quelli in cui viviamo. Il mio “altrove”, l’Ungheria, è uno spazio geografico e dell’animo ben riconoscibile, da qui nasce il mio interesse per i magiari e la magiarità. E sto parlando di un piccolo paese con una grande cultura che non è meno interessante di Ferrara, Lo dico con ironia e con serietà allo stesso tempo. Oggi ciò di cui si sente davvero il bisogno è di approfondire il tema del confronto-scontro tra culture, di capire i nessi e i vuoti tra popoli che storicamente poco si sono frequentati, più che di omaggiare i proprio territori con operazioni difensive e di retroguardia. L’Ungheria, insomma, o qualsiasi altro paese intercettato con amore, va vista un po’ come un Android della pagina scritta: un ambiente “intelligente” in cui far muovere personaggi e idee. Per conoscerla e conoscerci meglio.

 

 

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R.G.