QUANDO MUSSOLINI RICONOBBE I SOVIETI

Gromyko e Andreotti erano (insieme ad altri protagonisti di quel periodo come Henry Kissinger) uomini totalmente calati nel loro tempo, interpreti, ognuno nella sua parte, della Realpolitik, fondata sull’ordine di Yalta e su quello successivo di Helsinki. Appartenevano a quella schiera di raffinati tessitori degli equilibri internazionali di un’epoca che presto avrebbe volto al termine, dopo gli eventi inattesi del 1989. Prima della nascita dell’URSS, le relazioni tra Russia zarista e Regno di Sardegna datavano dal 1856 (uno dei primi ambasciatori, nel 1876, fu Costantino Nigra), mentre si ha notizia di ambasciatori piemontesi in Tutte Le Russia e dei loro dettagliati e interessanti rapporti inviati alla corte sabauda. Tra essi Joseph de Maistre, ministro plenipotenziario a San Pietroburgo di Re Vittorio Emanuele I, molto gradito allo zar Alessandro, che lo avrebbe voluto al suo servizio. L’apertura alla Russia sovietica fu voluta dal’Italia fascista di Mussolini e non risulta che la circostanza sia stata menzionata nel 1984. “Il riconoscimento deve essere incondizionato” diceva esplicitamente il Ministro degli Esteri sovietico, Litvinov. “Chi arriverà tardi, pagherà di più” tuonava Lenin, quasi evocando un premio in termini diplomatici e di affari a favore di chi si fosse mosso per primo. E ci fu, infatti, una gara al filo di lana tra l’Italia di Mussolini e la Gran Bretagna di MacDonald. “Il problema del riconoscimento de jure del’URSS - proclamò in Parlamento Mussolini il 30 novembre 1923 – è una foglia di fico con cui si cerca di coprire una verità concreta. Riconosco i Sovieti !”. Dichiarazione volta ad assicurare un primato, che fu tolto in extremis dalla Gran Bretagna, con l’instaurazione delle relazioni diplomatiche cinque giorni prima di Roma, il 2 febbraio 1924. Il primato che inseguiva Mussolini, serviva per ottenere il premio di cui aveva parlato Lenin, venne egualmente, anche se non così ricco come forse Mussolini aveva sperato. L’occasione si rivelò in ogni caso propizia, che, peraltro, non fu mai adeguatamente sfruttata per l’apparente incapacità degli operatori italiani di trattare con uno Stato imprenditore. Ma si avviava, intanto, un dialogo reciprocamente vantaggioso tra i due Stati, che progredì, purtroppo, tra alti e bassi (negli stessi anni Venti Mosca si raffreddò molto con Roma per le mire balcaniche italiane nei Balcani), con l’inevitabile interruzione con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e con la ripresa, attraverso gli anni della guerra fredda. I rapporti tra Italia e Russia sono ormai consolidati, pur nella travagliata e incerta congiuntura mondiale di oggi. Accordandosi con i sovietici, Mussolini intendeva fornire all’Europa una prova dell’antidogmantismo di cui si vantava, e guadagnare nello stesso tempo vantaggi commerciali. Mussolini trovò porte spalancate, rientrando nella collaborazione, anche militare, che le potenze dell’Asse ebbero con il Cremlino fino a ridosso del Secondo Conflitto Mondiale, in chiave “anti plutocratica” (il Duce aveva venduto una nave da guerra alla Russia di Stalin ancora nella seconda metà del 1939). Assai più difficile fu la ripresa dei rapporti diplomatici della prima Italia post fascista, nel maggio 1944. L’ambasciatore Quaroni fronteggiò, tra l’altro, il grave problema dei prigionieri e dei dispersi, tra i quali figurava anche mio padre, Casalino Michele, internato dai tedeschi in Russia Bianca, dopo la cattura in Albania, all’indomani dell’8 settembre, e quindi caduto nelle mani dei russi nel marzo 1945, durante i giorni dell’avanzata dell’Armata Rossa verso ovest e la ritirata germanica. Il compito di Quaroni risentiva degli echi di un’Italia sconvolta da una guerra sul suo territorio ed era complicato dalle difficoltà protocollari (i telegrammi, che egli spediva al Ministero degli Esteri russo, gli erano restituiti dalle poste sovietiche, con la scritta, “destinatario sconosciuto”, che, di fatto, lo era. Quaroni viveva in albergo e la sua prima nota alle autorità sovietiche fu scritta sulla carta intestata dell’”Hotel Natsional”. Solo il suo successore, Manlio Brosio, rientrò in quel Palazzo Berg di fine Ottocento, che è ancora oggi la sede della nostra legazione a Mosca, e che ha a sua volta tutta una storia da raccontare. Dopo l’armistizio separato tra la Germania del Kaiser e la Russia, da poco diventata “rossa e sovietica”, quell’edificio era l’ambasciata tedesca. In una delle sue sale fu ucciso l’ambasciatore di Guglielmo II, conte Mirbach. Era il luglio 1918. Per provocare una rottura con la Germania e rimettere in questione l’umiliante pace di Brestlitovsk, il partito social rivoluzionario, che faceva capo alla Spiridionova, e che era al governo della Russia con i bolscevichi di Lenin e Troskij (anche in contrasto con essi) decise l’attentato. Lenin in persona entrò nello stabile, per presentare le condoglianze sovietiche. Lenin conservava sentimenti di riconoscenza nei confronti dei tedeschi, che gli avevano dato una mano a rientrare in patria e a operare lo strappo russo dall’alleanza avversa agli Imperi Centrali (si vedano poi gli sviluppi russo tedeschi del “Rapallo Gheist”, tra il sovietico, Cicerin e il rappresentante della Repubblica tedesca, Von Rathenau, grazie al quali la Germania aggirò il divieto posto dalla Conferenza di Versailles al riarmo, trasferendo nelle fabbriche russe l’opera di ricostruzione del potenziale bellico tedesco). Nel clima di repressione che si creò contro gli esponenti social rivoluzionari, nacque nell’agosto del 1918 l’attentato della Kaplan contro lo stesso Lenin. Con la caduta degli Hoenzollern, dal marzo 1919, Palazzo Berg divenne sede del Comitato esecutivo della III Internazionale, il quartier generale della rivoluzione mondiale. Tale edificio venne assegnato all’Italia per sede d’ambasciata, dopo il riconoscimento della Russia sovietica da parte di Mussolini.

Casalino Pierluigi, 29.08.2011.