Era solo uno scherzo di Dio (Poesia e Grazia)

*di Paolo Melandri

A Johann Wolfgang Goethe e a Thomas Mann


Archeologia (Discesa agl’Inferi)


Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile?
Insondabile anche, e forse allora più che mai, quando si parla e si discute del passato dell’uomo: di questo essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura felice ma oltre natura misera e dolorosa. È ben comprensibile che il suo mistero formi l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dia fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema. Perché appunto in questo caso avviene che quanto più si scavi nel sotterraneo mondo del passato, quanto più profondamente si pénetri e cerchi, tanto più i primordî dell’umano, della sua storia, della sua civiltà, si rivelano del tutto insondabili e, pur facendo discendere a profondità favolose lo scandaglio, via via e sempre più retrocedono verso abissi senza fondo. Giustamente abbiamo usato le espressioni “via via” e “sempre più”, perché l’insondabile si diverte a farsi gioco della nostra passione indagatrice, le offre mete e punti d’arrivo illusorî, dietro cui, appena raggiunti, si aprono nuove vie del passato, come succede a chi, camminando lungo le rive del mare, non trova mai termine al suo cammino, perché dietro ogni sabbiosa quinta di dune, cui voleva giungere, altre ampie distese lo attraggono più avanti, verso altre dune.
Ma ci sono inizî particolari e circoscritti che formano, praticamente e positivamente, l’inizio primo di una determinata comunità o raggruppamento etnico e religioso, cosicché la memoria, pur consapevole di non poter mai scandagliare l’ultima profondità, può acquietarsi presso questo inizio e ivi segnare, personalmente e storicamente, l’estremo limite delle sue ricerche.
E ci sovviene, in questa nostra tentata evocazione del passato, dell’ultima immagine di Roma che rimase impressa nella nostra rétina e nel nostro cuore, quando, a quattordici anni, vi soggiornammo un mese con la nostra famiglia. La nostra partenza da Roma doveva avere un richiamo solenne: già da tre notti la luna splendeva nel cielo cristallino, sì da farci sentire più che mai acuto l’incanto che essa diffondeva sull’immensa città, e che tante volte avevamo provato. Le grandi masse luminose, immerse in un tenue chiarore quasi diurno, coi loro contrasti d’ombre fonde, illuminate a tratti da riflessi in cui balenavano particolari, ci trasportavano in un’altra sfera, quasi al cospetto di un mondo diverso, più semplice, più grande.
Dopo tante giornate piene di distrazioni e non prive di sofferenze, una sera facemmo – la mia famiglia ed io – una passeggiata per la città con un piccolo gruppo d’amici. Dopo aver disceso, forse per l’ultima volta, la lunga via del Corso, salimmo al Campidoglio, che si ergeva come un palazzo fatato nel deserto. La statua di Marco Aurelio ci fece pensare al Commendatore del Don Giovanni: anch’egli pareva annunziare al passante che stava accingendosi a un’eccezionale impresa. Incuranti del monito, scendemmo la scala dietro il palazzo. L’arco di Settimio Severo stava di fronte a noi, cupo nella cupa ombra che proiettava; sopra la solitudine della Via Sacra i monumenti così noti al nostro occhio apparivano in una luce insolita, spettrale. Ma quando, avvicinandoci ai venerandi ruderi del Colosseo, guardammo attraverso l’inferriata entro il chiuso recinto, non posso tacere che un brivido assalì noi tutti e ci spinse a ritornarcene senza indugio.
Ogni grande massa produce uno speciale effetto, di sublimità e insieme di concretezza; e in quel vagabondaggio traemmo, per dir così, una smisurata summa summarum dell’intero soggiorno. Tale sentimento, profondamente, grandiosamente avvertito nell’animo turbato, vi suscitava una propensione che possiamo ben definire eroico-elegiaca, e che tendeva appunto ad assumere la forma poetica dell’elegia.
E come non poteva, in simili istanti, rivivere nella nostra mente l’elegia di Ovidio, che, esiliato lui pure, aveva dovuto lasciare Roma in una notte di plenilunio? «Cum repeto noctem!» Quel suo rimpianto pieno di tristezza e d’angoscia, là dal remoto Mar Nero, ci perseguitava; andavamo ripetendo il carme che a tratti ci riaffiorava preciso nella memoria, ma tuttavia offuscava e intralciava ogni personale espressione; e anche quando più tardi ci piacque ripetere il tentativo, non approdammo ad alcun risultato.

Cum subit illius tristissima noctis imago,
quae mihi supremum tempus in Urbe fuit;
cum repeto noctem, qua tot mihi cara reliqui;
labitur ex oculis nunc quoque gutta meis.
Iamque quiescebant voces hominumque canumque ;
lunaque nocturnos alta regebat equos.
Hanc ego suspiciens, et ab hac Capitolia cernens,
quae nostro frustra iuncta fuere Lari.
  
Una lunga tradizione di pensiero, fondata su un vero sentimento della natura dell’uomo, nata in tempi antichissimi ed entrata come patrimonio ereditario nelle varie religioni, profezie e teorie della conoscenza che di mano in mano si sono succedute in oriente, nell’Avesta, nell’Islamismo, nel Manicheismo, nella Gnosi e nell’Ellenismo, riguarda la figura dell’uomo primo o dell’uomo perfetto, dell’ebraico Adam qadmon. Dobbiamo immaginarci questo essere come un giovinetto creato con pura luce, prima dell’inizio del mondo, modello e quintessenza dell’umanità. Tutte le teorie e i racconti che ad esso si riferiscono, per quanto varî e mutevoli, concordano nell’essenziale.
L’uomo primitivo, così si narra, fu, sin dall’inizio, il combattente eletto da Dio nella lotta contro il male, insinuatosi nel mondo creato da poco. Ma, sconfitto, fu fatto prigioniero dai demoni, chiuso nella materia, straniato dalla sua origine. Venne tuttavia liberato dalle tenebre della sua esistenza terrena e corporea e ricondotto nel regno della luce per opera di un secondo messo di Dio. Questi, per misteriosa identità, non era altri che l’uomo, il suo Io più alto e più puro, che però dovette perdere una parte della sua luce e lasciarla per la formazione del mondo materiale degli uomini terreni. Storie meravigliose, in cui un elemento religioso, già percepibile, di redenzione si nasconde dietro finalità cosmogoniche. Ci viene infatti raccontato che l’uomo primo, figlio di Dio, conteneva nel suo corpo luminoso i sette metalli di cui è costituito il mondo e che corrispondono ai sette pianeti. In un’altra versione si racconta che quell’essere scaturito dalla Causa prima, dal Padre celeste, scese attraverso le sfere dei sette pianeti e da ognuno dei signori di queste sfere ottenne di partecipare alla loro natura. Poi guardando la propria immagine riflessa nella materia, se ne invaghì, scese ad essa e così rimase avvolto nei legami della più bassa natura. In tal modo si spiegherebbe appunto la doppia natura dell’uomo, che unisce indissolubilmente caratteri di origine divina e di libertà sostanziale con quelli di una pesante schiavitù al mondo inferiore.
In questa immagine narcisica, piena di tragica grazia, il senso della tradizione comincia a purificarsi. Tale purificazione avviene infatti nel momento in cui la discesa del figlio di Dio dal suo mondo di luce nella natura cessa di essere un semplice atto di obbedienza a un ordine superiore. Nello stesso momento comincia a rivelarsi il significato di quel “secondo messo” che, identico nel più alto senso all’uomo luminoso, sarebbe venuto per liberarlo di nuovo dai lacci della tenebra e ricondurlo alla sua patria celeste. E la dottrina prosegue distinguendo il mondo nei tre elementi personali della materia, dell’anima e dello spirito, tra i quali, con la partecipazione della Divinità, comincia a intessersi quel romanzo il cui vero protagonista è l’avventurosa anima umana che appunto nell’avventura si rivela creatrice. Questo romanzo, in cui si uniscono il racconto delle prime origini e la profezia delle ultime cose e che è già di per sé tutto un mito, ci informa chiaramente sulla sede del paradiso e sulla storia del peccato originale.

Preludio in Cielo


Nelle sfere e nelle gerarchie celesti regnava allora, come sempre in occasioni simili, una soddisfazione lievemente ironica, una maliziosa gioia che cercava di mostrarsi il meno possibile, espressa, quando s’incontravano gli angeli, solo con rapidi sguardi sotto ciglia pudicamente abbassate, tra un appuntirsi contegnoso di labbra. Ancóra una volta la misura era colma, esaurita era la mitezza, l’ora della giustizia era suonata. Iddio, molto contro voglia e contro i suoi progetti, sotto la pressione del Regno del Rigore (davanti al quale, del resto, il mondo non poteva esistere come, d’altra parte, non si sarebbe potuto nemmeno edificarlo sul troppo molle terreno della semplice mitezza e della lieta misericordia), si vide costretto in regale accoramento, per restituire una volta ancóra l’antico ordine, a intervenire, a radere al suolo e a distruggere: come al tempo del diluvio, come il giorno della pioggia di zolfo, quando il Lago di Sale aveva inghiottito la città del vizio.
La concessione fatta ora alla giustizia non era di quello stile e nemmeno di quelle proporzioni, non arrivava a un grado così terribile come al tempo della grande penitenza, quando tutto il mondo fu sommerso, e nemmeno come quando a due di noi, a causa del depravato senso della bellezza della gente di Sodoma, si voleva imporre un tributo intollerabile. Non tutta l’umanità finiva questa volta nell’inferno e nel carcere, e nemmeno una parte di essa traviata in modo da gridar vendetta al cielo. Quello che ora ci veniva messo davanti agli occhi era solo un singolo rappresentante della specie, un essere grazioso e arrogante, oggetto di predilezione, di sollecitudine e di un vasto disegno. E ciò a causa dell’idea bizzarra e offensiva, anche troppo nota alle sfere e alle gerarchie celesti e sempre fonte di nuova amarezza, non disgiunta però da pur giustificata speranza che l’amarezza sarebbe presto toccata a Colui che tale idea aveva concepito e attuato. E l’idea era appunto questa: «Gli angeli sono creati a nostra immagine, ma non sono fecondi. Gli animali invece, guarda, sono fecondi, ma non sono a immagine nostra. Vogliamo creare l’uomo: a immagine degli angeli, ma fecondo».
Un’idea assurda. Più che superflua, aberrante, capricciosa, e gravida di pentimento e di amarezza. Noi non eravamo “fecondi”, certamente no. Camerlenghi della luce, taciti cortigiani eravamo noi, e la storia di una nostra unione con le figlie degli uomini fu soltanto un pettegolezzo che corse di mondo in mondo, ma privo di fondamento. Tutto considerato, quali che fossero gli interessanti significati, superiori alla sfera animale, che quel privilegio animale, la dote della “fecondità” poteva racchiudere in sé… noi gli “infecondi”, noi comunque, non bevemmo l’iniquità come l’acqua. Egli avrebbe veduto un bel giorno in che situazione verrebbe a trovarsi con la sua specie d’angeli feconda! Forse avrebbe riconosciuto che una onnipotenza capace di unire padronanza di sé e saggia cura della propria tranquillità si sarebbe dovuta contentare eternamente della nostra onorata esistenza.
Questa onnipotenza, questa facoltà assoluta di immaginare e suscitar forme nuove, di dare esistenza con un semplice “fiat” aveva naturalmente i suoi pericoli… Anche la Somma Saggezza poteva non essere pienamente in grado di superarli, poteva non bastare del tutto a prevenire errori e passi inopportuni nell’esercizio di queste sue facoltà assolute. Per puro istinto di agire, puro bisogno di attuazione e di produr-si, ardente desiderio del “dopo questo anche quest’altro”, “dopo gli angeli e gli animali anche l’animale angelico”, la Somma Saggezza si avventurò in impresa non saggia, creò un essere palesemente precario e imbarazzante: un essere al quale, proprio perché creazione innegabilmente sbagliata, Egli, con solenne ostinatezza, restò attaccato e dedicò una premura offensiva per tutti i cieli.
Ma Iddio, era Egli stato tratto da sé, di propria iniziativa, a questa creazione spiacevole? Nelle gerarchie e negli ordini celesti correvano supposizioni che, confidenzialmente e segretamente, negavano questa indipendenza; supposizioni indimostrabili ma con un fondamento di verosimiglianza, secondo le quali tutto era dovuto a un suggerimento del grande Semael, che, prima della folgorante caduta, era stato molto vicino al Trono.
[Paolo Melandri / sabato 6 agosto 2011]