Dario Gigli Il Regno di Pietra

      Più articolati sono divenuti i quesiti, tanto più complesse le argomentazioni portate quali tentativi di placare la sete di conoscenza, tuttavia, la costante riguardante  origini del mondo, sacro/profano, vita/morte, divinità/umanità ha dominato e continua a dominare l’immaginario collettivo sostenuto da ben poche certezze. Argomentazioni impotenti, comunque, nonostante l’evoluzione tecnologica, a fornire spiegazioni esaurienti e di conseguenza a pacificare gli animi laici.
      Ne Il Regno di Pietra, Dario Gigli, laureatosi in Lettere moderne, indirizzo storico-geografico, dà voce al pius Enea -«Enea scrutò quelle donne con una sorta di ammirazione ma allo stesso tempo di sconforto.(...) Doveva giudicare e punire il suo popolo perchè il destino era stato avverso con loro, perché gli dei si erano divertiti a torturarli; doveva punire quelle donne perché avevano cercato il bene comune.» (pag. 178)- offrendo materiale ad una interpretazione che ricorda il pensiero di Giambattista Vico riguardo il progresso della civiltà umana. Se l’Iliade e l’Odissea, davvero non fossero l’opera di un singolo, bensì rappresentassero la “storia” orale del popolo greco, la narrazione epica di Gigli si paleserebbe come contributo critico, sebbene romanzato e al limite del mito, al soppesare di quanto l’umanità o l’esistere in quanto umano nelle più complesse sfaccettature, abbiano contato nel dare una definizione di organizzazione civile, e di etica. Dei, eroi, uomini: al di là della visione illuministica, è in gioco le definizioni di dominio e di debolezza, di pace e di guerra, di volontà e di destino, di legge e di disubbidienza, evolutesi nei secoli e pertanto motivo dell’assopirsi dei miti.
      Alla base della narrazione di questa terza prova letteraria -dopo i romanzi brevi Taras (Este Edition, 2004) e L’eco del mare (Este Edition, 2006)- Gigli dimostra di aver posto una approfondita conoscenza dei miti da cui muove l’intenzione stessa di superarli, di scardinarli, quasi affiancandosi alla visione tragica dell’agire umano di Eschilo e di Aristotele. Il Regno di pietra «È la storia di un uomo e il canto epico di una cultura che vive ancora nella nostra contemporaneità. Il Regno di pietra è la summa di personaggi archetipi che sono storici in quanto verosimilmente in sintonia con le nostre passioni e i nostri sentimenti» (Quarta di copertina), diviene il palcoscenico sul quale si dispiega il tema della decisione, del fare, del non fare, di scegliere la sorte, di opporsi a quel caso che mina passioni e progetti e che appare, a volte, mutare in passività la capacità d’azione degli uomini.
      Attraverso quanto tramandato e quanto si possa estrapolare dagli studi archeologici, tra ciò che possa definirsi Storia e l’illusione dell’individuo d’essere libero, indipendente, autonomo, si cala la storia di Achemenide e se ne legge lo svolgersi sia all’ombra del Wanax, nella proiezione lunga e, oserei dire, fatale, del destino degli eroi, riconosciuti come tali, e degli altri personaggi, sia al sopraggiungere inesorabile degli eventi. L’unico, Achemenide, schiavo acheo, capace di un desiderio, vale a dire ritornare ad Itaca, il regno di pietra, la sua patria, la sua casa; un sogno in forza del quale fare scelte e prendere decisioni, autodeterminarsi.
      Achemenide, non somiglia all’Agamennone che nell’Iliade, durante la propria confessione rettificante si chiede che altro avrebbe potuto fare, affermando e sottolineando come siano gli dei a compiere ogni cosa, e assumendo quale alibi Ate, dea della necessità, che dopo essere stata scagliata sulla terra da Zeus si diverte a tormentare gli umani. Achemenide è soltanto un uomo: «Egli non sa di essere l’Achemenide che comparirà nell’Iliade, nell’Odissea e secoli dopo nell’Eneide di Virgilio. Conoscerà la gloria, imparerà ad amare la pace; vivrà all’ombra di Polifemo e conoscerà la schiavitù per mano di Enea.»; transitante nella Storia,  simbolo dell’uomo consapevole  dei segnali del tempo: «“Questa non è una guerra tradizionale, questa è una guerra per la sopravvivenza” (...) “Questi barbari sono stati inviati dagli dei per punirci dei nostri peccati” (...) “I nostri dei sono sull’orlo dell’estinzione, nuove popolazioni con nuove divinità giungono da ogni dove. I nostri dei sono stanchi e vecchi come noi” si intromise Odisseo mettendosi al fianco di Menelao”» (p. 237), sebbene non sia un eroe; ormai anziano, assisterà al funerale del proprio Wanax-Signore e all’incoronazione del nuovo, Telemaco, presagendo la Storia che avanza «non so se il suo regno durerà un giorno, un mese o un anno, per poi finire spazzato via dalle popolazioni barbare che ci attanagliano dal mare e dalle terre del nord» (Epilogo, p. 254).
      “Noi mortali non siamo re, ognuno con un mondo su cui regnare, nuovo e appena nato, solo per il nostro piacere; no, siamo stranieri; il mondo esiste da tanto tempo” scrisse il filosofo Empedocle. Gli eroi/uomini hanno saputo avere la meglio sul dominio degli dei, liberandosi dal giogo dei loro umori mutevoli e garantendo dignità ai mortali; deboli ed inermi, certamente, contro un dio-vulcano, un dio-terremoto, un dio-tzunami, forse volubili e capricciosi, paradossali (si pensi alla dea Atena, vergine e guerriera, simbolo del matrimonio e della saggezza, in una polis al maschile) ad immagine di dei/passioni ai quali tutto ed il contrario di tutto è possibile, ma di certo avviati nella difficile navigazione verso la civilizzazione, pur se con corsi e ricorsi.
      Una navigazione che mai avrà termine, sembra suggerirci attraverso le pagine de Il Regno di pietra il nostro Dario Gigli, di origini pugliesi, anch’egli un errante, spinto dalla necessità, all’inseguimento di risposte, ideali, sogni, desideri, il quale riporta   nei Ringraziamenti le parole incoraggianti del fratello: «È importante che ognuno realizzi i propri sogni...» (p.255). Una frase che non ha area etimologica, e nemmeno una datazione;  tanto antica quanto contemporanea.