MARCO MILANI IN NOMINE PATRIS

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IN NOMINE PATRIS

( Marco Milani )

 “’Altri’ sono già venuti, ‘altri’ ancora verranno in seguito. Non importa, almeno per il momento. Riceveranno quello che hanno ricevuto i primi e lo stesso riceveranno quelli che verranno dopo di loro… così sarà finché non tornerà la Grande Madre. Questo pianeta non è più luogo per noi, la specie primaria si sta evolvendo rapidamente e tra poco non sarà più controllabile. A meno che non la si estirpi completamente, questo pianeta non può diventare quello definitivo per farlo divenire la nostra nuova casa. Ma non è questo che vogliamo, distruggere interferendo con lo sviluppo di questa forma di vita, anche se è del tipo peggiore e alla fine, oltre ad annientarsi da sola, annienterà anche il proprio pianeta. La Grande Madre tornerà e ci porterà alla ricerca di un nuovo mondo e forse sarà quello definitivo dove stabilirci. Nel frattempo aspetteremo. ‘Altri’ sono già venuti, ‘altri’ ancora ne verranno in seguito. Dovremo distruggerli, ma è quello che vogliono loro.”

Messico. Anno 1580 D.C.

- Padre Ramon. -

L’ufficiale stava arrivando a passo spedito verso di lui. Distolse l’attenzione dal breviario e si attestò a ricevere le ultime novità: sicuramente era ora di partire.

- Padre, gli esploratori sono appena rientrati. -

- Capitano Espinoza… - alzò lo sguardo al volto scarno ed emaciato dell’uomo, al comando del contingente di Conquistadores che Filippo II Re cattolico di Spagna gli aveva assegnato per la missione di purificazione del Nuovo Mondo.

- Mi benedica padre. - accennò ad un inchino rituale al superiore responsabile. - Il villaggio è dietro la seconda collina, a tre ore di marcia. -

- Quanti sono stavolta questi esseri senza Dio. - lo disse con la voce contratta e tremolante, dovuta alla rabbia che gli scatenava il sapere dell’esistenza di queste eresie viventi. - Quanti animali privi di ragione che vivono come bestie in mezzo alle bestie! Quanti! -

- Almeno ottocento animali. -

- Bene capitano. E’ ora di muoversi? -

- Non ancora Padre Ramon. Un’altra ora, poi smonteremo il campo e partiremo. Prima di sera arriveremo ai piedi della seconda collina, restando dalla parte opposta dove non saremo visti e a circa ad un’ora di marcia dal loro villaggio. Lì potremo riaccamparci e attendere e prima dell’alba attaccare. -

- E allora attaccherete capitano. Questo è il vostro compito e lo eseguirete ottimamente come al solito. - lo disse come una pura presa d’atto, una certezza dogmatica. - Poi io svolgerò il mio. Questi territori selvaggi devono tornare a poter ospitare la purezza della Fede, su ordine Divino per mano del vostro devoto Re. - non riuscì a trattenere un sospiro che denotava stanchezza. - Attaccate capitano e abbattete senza remore le impurità sul vostro cammino. Per Dio nostro Signore, suo Figlio morto per noi e con la benedizione del suo rappresentante tra gli uomini, nostro Papa Gregorio. -

- Certamente Padre, la avvertirò quando saremo pronti. - 

Detto questo il capitano ritornò sui suoi passi, non prima di aver riverito nuovamente, come da protocollo militare, il frate. Questi riabbassò la testa riportando lo sguardo sul breviario ancora aperto poggiato sulle ginocchia. Prese a leggere con voce sommessa.

- In nomine Patris et Filii et Spiritus Sanctus…

I cavalieri erano arrivati al passo dopo un’ora di lenta marcia, con al seguito i soldati a piedi, gli ‘infantes’ e i ‘lanceros’. Fanti e picchieri. A ruota c’erano gli ‘atraercanes’, i tiratori di cani con i loro animali scuri e massicci di pura razza molosso, tutti Dogo Canario di almeno trenta chili delle isole dell’arcipelago ispanico.

L’indio aveva osservato il gruppo compatto attraverso la prateria sin da quando erano apparsi da dietro la collina. Oltre trecento uomini bianchi, di cui una cinquantina a cavallo. Almeno venti degli appiedati portavano legati a corde un paio d’animali simili a grassi coyote e scuri come la notte. Erano i primi uomini bianchi su cui si posavano i suoi giovani occhi, forse erano Dei o forse una sconosciuta tribù del nord. Rilucevano al sole di bizzarri bagliori, come luce sull’acqua, forse erano Dei. Altri ragazzi della sua età gli erano giunti alle spalle e anche loro osservavano stupiti la strana gente dalla pelle chiara, dagli ancor più insoliti vestiti e dalle lunghe lance, forse erano Dei. Si stavano avvicinando, li avrebbero attesi.

I cavalieri, giunti a non più di trecento metri dal gruppetto di indigeni vestiti solo di un pezzo di pelle di una qualche bestia selvatica, all’ordine del capitano Espinoza partirono compatti al piccolo trotto. Soldati e picchieri presero a correre. Gli atraercanes accelerarono di poco il passo.

L’indio che per primo li aveva avvistati sorrise e si avviò loro incontro agitando le braccia e mandando grida di saluto seguito nell’esempio dai suoi giovani compagni.

La cavalleria si divise in tre tronconi partendo ad un galoppo sfrenato, con il grosso del gruppo che proseguiva verso il centro del villaggio e gli altri due più sparuti con una decina di elementi ciascuno, allargarono diretti all’esterno delle capanne, costruzioni semplici di quattro tronchi incrociati in alto a formare una punta e riparate a copertura con pelli bovine e di bufalo.

Il sorriso sulla faccia del ragazzino finì frantumato sotto gli zoccoli del primo cavallo e il suo corpo maciullato dal resto della colonna centrale dei cavalieri spagnoli. Non si rese conto di nulla. Qualcuno dei suoi compagni invece riuscì a rendersi conto che gli esseri dalla pelle bianca, Dei o uomini che fossero, portavano morte, ma troppo tardi per evitare di essere travolti e uccisi dalla loro irruente carica. Altri fecero appena in tempo a lanciare urla sgomente prima che una lancia trafiggesse loro la gola o una spada tagliasse la testa. Pochi riuscirono a raggiungere le tende, ancora meno a dare l’allarme, ma non servì a nulla.

Il capitano, sempre davanti ai suoi Conquistadores, avvistò un indio uscire da una capanna, un bambino che alla vista del soldato si mise a piangere. Lo puntò e con un colpo netto della sua lama gli staccò la testa dal collo, scaraventandola proprio ai piedi della madre che aveva seguito il figlio, forse perché piangeva, forse per fermarlo, forse per capire cosa stesse succedendo.

Pochi attimi dopo nel villaggio indigeno si era acceso il putiferio più assoluto. I cavalieri scorazzavano avanti e indietro e i soldati a piedi avevano iniziato a scatenarsi tra le misere costruzioni, ognuno in cerca di vittime per la propria arma. Uomini e donne, vecchi e bambini, compresero che quello in corso era un attacco diretto alle loro vite. Quasi tutti correvano senza un senso in cerca di un’insperata possibilità di salvezza. Pochi uomini tentavano di difendersi, armati di rudimentali scuri e lance con schegge di pietre legate all’estremità. Per ognuno di loro si preannunciava lo stesso ineluttabile destino, la morte, condiviso con capre, pecore e agnelli. Nessuno era immune, neppure le bestie.

Il compito di infantes e lanceros era di completare il lavoro grossolano dei cavalieri in corsa. Nuclei formati da tre o quattro soldati, vagando tra arti mutilati, teste recise e corpi smembrati, ponevano fine alla vita rimasta, mutilando, recidendo e smembrando. La difficoltà principale era non mettere un piede in fallo nelle enormi pozze di sangue fresco, così scivoloso mescolato con la terra fine, e non inciampare nelle budella fuoriuscite da addomi troppo squarciati. Fatto questo dovevano introdursi capanna per capanna e continuare nella loro opera capillarmente.

Gli atraercanes giungevano per ultimi, restando al limitare della zona di attacco in attesa di eventuali fuggitivi. Ma questa volta non ebbero troppo da fare, accontentandosi di aizzare dieci cani al posto dei soliti due, più che sufficienti, contro una donna che con in braccio il figlioletto neonato andava loro incontro. Stava correndo guardandosi alle spalle per vedere se era riuscita ad evitare i suoi inseguitori e non si era accorta della loro presenza. Le sue urla sguaiate e rese inumane dall’esasperato dolore non li fece ridere che per un paio di minuti. Alla fine, per far mangiare tutti i cani e impedire che si attaccassero tra di loro, dovettero recuperare qualche pezzo di capra e pecora sparso in giro.

Il capitano dichiarò conclusa la battaglia dando il via alle tre suonate di tromba, segnale convenuto. C’era voluto un po’ di tempo date le dimensioni del villaggio, ma aveva eseguito più che bene il suo dovere. Ora restavano solamente da raccogliere i sopravvissuti che in siti come quello, che contavano circa ottocento animali senza fede, di solito si aggirava tra le cinquanta e le cento unità. In tre anni di servizio al Re come Conquistador aveva acquisito una certa pratica. La sua parte finiva lì e il resto era compito di Padre Ramon, a lui la parte militare e al benemerito frate quella religiosa.  

I tentativi inutili di avviare all’unica Fede gli animali senza Dio erano un dovere da compiere, un ordine superiore da eseguire, ma loro la rifiutavano quella fede, preferendo morire. La Chiesa era anche troppo indulgente e a suo parere le nuove terre andavano ripulite al più presto dalla presenza eretica e lasciate ai veri credenti come il suo cattolico Re. Ma era un’idea che doveva tenere per sé, erano considerate eresie anche solo pensarle certe cose e la Chiesa, in questo non era per niente indulgente. Un altro parere da tenere per sé.

Entro relativamente poco tempo il reparto logistico avrebbe dato inizio alla costruzione delle forche e al rimontaggio degli strumenti di persuasione di padre Ramon. Questi avevano la precedenza, non c’era tempo da perdere. Avrebbero poi messo insieme il campo subito fuori dal villaggio, con tutta la calma necessaria, fintanto che il frate tentava di far riconoscere Gesù e la Fede Cattolica ai sopravvissuti.

Il giorno successivo sarebbe stato quello della pulizia e ripartenza. Il suo ordine, di disinfestare quella terra contagiata dall’eresia con la potenza del fuoco purificatore, sarebbe stato il segnale definitivo di conclusione anche di quell’operazione.

E con questi pensieri ritornò sui suoi passi, ma una scena lo colpì e si fermò ad osservare quella cosa anomala che non riusciva a comprendere appieno. Il cadavere di un anziano indigeno era in posizione quasi eretta, ma scompostamente mortale, sostenuto da una lancia appoggiata al terreno e con la lunga punta ferrea che gli entrava da sotto, alla base del collo, fuoriuscendo dalla bocca per almeno trenta centimetri. Si avvicinò, estrasse la spada e con un colpetto preciso al centro della lancia fece piombare il corpo a terra, togliendolo da quella strana forma di equilibrio.

- Padre… -

- Silenzio uomo! - intimò il prete al soldato che insieme ad un altro teneva bloccato l’indio adulto per le braccia. - Ora non ho tempo. Legatelo al patibolo con gli altri. -

Ai due non rimaneva che eseguire, erano il braccio operativo che espletava i comandi del frate. L’indigeno fu l’ultimo ad essere appeso a completare il carico sulla ‘larga forca’ insieme con altri dodici uomini, tre dei quali erano morti e la bava che usciva loro dalla bocca non lasciava dubbio alcuno; altri due ormai erano giunti allo stremo delle forze e non riuscivano più a sorreggersi, con i cappi che iniziano la loro azione di lenta asfissia.

La forca larga era quella studiata ed eretta ad onore del Redentore e dei suoi apostoli. Il cappio di ognuno dei tredici impiccandi era della lunghezza esatta, in modo che con le punte dei piedi scalzi essi toccassero appena il terreno in maniera tale da prevenire, all’inizio, il soffocamento.

- Ora tu tradurrai le mie parole. - si rivolse all’uomo che aveva al fianco, vestito come un soldato spagnolo. Era uno dei pochi abitanti delle nuove terre divenuto cattolico, arruolato come armigero dallo stesso capitano Espinoza, utile in molti casi e all’occorrenza interprete per la spedizione, come in questo. Molte lingue parlate nei vari villaggi per un’ampia zona erano simili, derivanti da ceppi comuni o mischiate da anni di scambi commerciali e matrimoniali.

- Ripeti le mie parole a questo miscredente. - Lanciò un’occhiata rabbiosa verso la ‘larga forca’ dove i due soldati stavano finendo di legare l’indio.

- Sì, padre - assentì.

Il frate avanzò di alcuni passi portandosi a ridosso dell’uomo, il capo del villaggio. - Dai l’esempio alla tua gente, - usava un tono suadente e oltremodo gentile - apri il tuo cuore a Gesù nostro Signore. - Intanto i due soldati depositarono altri rami e sterpaglie secche sul già consistente mucchio accumulato ai piedi della ‘larga forca’, poco avanti ai piedi degli altri uomini appesi.

- Ti prego. - continuò - Apri il tuo cuore, affinché la tua anima possa salire al cielo insieme ai giusti della Fede. - L’uomo ancora non aveva proferito parola e lo guardava in silenzio, ascoltando la sommaria traduzione dell’uomo vestito come i bianchi ma con la pelle del suo stesso colore.

- Ti scongiuro, apri il tuo cuore a Dio, per non precipitare nella perdizione eterna dell’inferno. - Aveva le mani giunte come se stesse pregando.

- Se il cielo è il luogo destinato ai cristiani - l’indio parlò lasciando sconcertati tutti quanti -preferisco andare nel luogo che chiamate inferno. - Il traduttore, dopo il momento di sorpresa, riferì in spagnolo le sue parole e subito dopo le successive. - Apri il tuo cuore uomo bianco. Oltre la prossima collina ti attende il tuo paradiso. -

Il capo degli indios non disse altro. Non fiatò neppure per tutto il tempo che impiegò la legna accatastata ai piedi della ‘larga forca’ a bruciarlo vivo insieme agli altri dodici indigeni appesi, vivi o già morti che fossero. Padre Ramon non era rimasto a guardare, inutile perdere tempo ed entro sera c’era ancora tanto da fare.

Dopo aver percorso un tratto del sentiero privo d’erba che dal centro del villaggio portava al campo dei Conquistadores, si diresse deciso verso la tenda del capitano Espinoza, riconoscibile in quanto, insieme alla sua, era leggermente più grande delle altre.

- Capitano Espinoza! - strillò, la voce ridotta ad uno stridulo acuto e convulso. - Capitano! - ripeté, ma questi era già sbucato fuori riconoscendo lo sbraitare del nervosissimo religioso.

- Padre… -

- Mi segua capitano. - Si voltò senza attendere risposta, tornando sui suoi passi.

Espinoza seguì il frate già sapendo che lo aspettava una sfuriata. Ci era abituato. Quando qualcosa non era andato per il verso che il padre si aspettava, vale a dire quasi sempre, si sfogava imprecando alla poca rapidità o alla scarsa efficienza dei soldati o a qualche altra pochezza nel lavoro di finitura delle offensive contro i senza Fede. Stavolta era successo un qualche fatto che lo aveva irritato veramente al limite.    

Lo affiancò ad una trentina di metri all’interno dei resti del villaggio, dove le capanne erano distrutte, ma non ancora incendiate. - Guardi lì capitano - gli indicò alcuni cadaveri  completamente squartati, gettati a mucchio l’uno sull’altro, aggrovigliati tra loro in un agglomerato di pezzi, organi e viscere impastati di terra e sangue. Un insieme quasi unico. Si distinguevano a malapena un paio di tronconi senza testa e il corpo di un ragazzino, senza braccia e con il cranio aperto, attraversato fino a fianco del naso da due grumose e scure slabbrature. Nugoli di grossi insetti e neri ronzavano attorno e dentro le carcasse, provocando dei rumori sordi e incredibilmente amplificati. 

- Capitano, questo fetore è insopportabile. È penetrante e pestilenziale. Le ho dato ordine di fare un lavoro veloce e mondare tutta questa indecenza alle fiamme purificatrici. -

Quel proferire con senso inquisitorio lo infastidiva oltremodo. - Padre, è un lavoro lungo e faticoso. Era un villaggio grande e i miei uomini non riescono… - non riuscì a proseguire.

- Capitano Espinoza! Faccia bruciare quelle bestie… quella carne immonda fuori della grazia di Dio Onnipotente. Subito! -

Non rimaneva che eseguire, come al solito. Rinfoderare la rabbia prima di averla estratta e da buon soldato, obbedire. - Sì, padre. Soldato… -  Si era rivolto al primo che aveva scorto guardandosi rapidamente intorno. Poco distante da loro, uno dei picchieri stava camminando come se fosse a spasso, con la lunga lancia in una mano e portandosi in giro un bambino di pochi mesi nell’altra, tenendolo per le gambe a testa in giù. Ne percepì il pianto oramai esausto.

Al richiamo del suo comandante gli si avvicinò di corsa e si attestò a ricevere ordini. Annuì alle poche parole del capitano. Posta a terra immediatamente l’arma, si guardò confusamente attorno come a cercare qualcosa. Subito la sua attenzione cadde in un punto e vi si diresse, giungendovi in pochi e veloci passi. Sbatté con forza un paio di volte il neonato su un di grosso e liscio sasso, bestemmiando quando al secondo colpo schizzi di sangue e cervella gli sporcarono le brache e gli stivali. Gettò il corpicino immobile e straziato poco in là e poi raccolse le prime sterpaglie che aveva trovato lì vicino.

Intanto Espinoza aveva seguito padre Ramon, ancora in fase di sfogo, che vagava come un’anima in pena senza criterio alcuno. Si fermò solamente dopo un po’ davanti ad un albero dove, per risparmiare legno, corde, spazio e lavoro per la costruzione delle forche, penzolavano due donne impiccate, con altrettanti neonati impiccati appesi alle loro caviglie.

- Capitano. - disse il frate continuando ad osservare l’albero con apparente interesse.

- Sì, padre. - rispose prontamente.

- Si accerti che tutto sia finito entro sera - aveva riacquistato un certo contegno, con toni bassi e modi calmi, - e domani voglio partire alla volta della prossima collina. C’è una valle e una foresta se ho ben compreso. -

- Sì, padre. Ha ben compreso. Gli esploratori sono giunti al limitare della valle. Con la foresta troveremo di certo dell’acqua con cui ripristinare le nostre scorte. -

- Domani all’alba. Ci fermeremo nella valle solo il tempo strettamente necessario e continueremo verso ovest, tra le colline, alla ricerca di altri animali senza Fede. Dobbiamo proseguire nell’opera il più celermente possibile. - All’attimo di pausa il capitano non replicò, rimanendo in ascolto - Non possiamo lasciare che l’eresia persista in questi luoghi. Gesù è morto in croce per liberare il mondo dal peccato, ed è nostro dovere far sì che il peccato non vi torni, combattendolo ad ogni costo e con tutte le nostre forze. -

S’inginocchiò ai piedi dell’albero. - Ho bisogno di pregare nostro Signore. Mi lasci solo capitano. -

- Certamente padre. Sarà fatto. - Si voltò avviandosi a passo tranquillo verso la propria tenda.

Padre Ramon incrociò le mani e socchiuse gli occhi. Era tutt’altro che tranquillo. Le poche, evocative parole dell’indio non volevano andarsene dalla sua mente.

A voce alta prese a salmodiare - In nomine Patris… ‘Apri il tuo cuore uomo bianco.’  …et filii… ‘Oltre la prossima collina’ …et Spiritus… ‘ti attende il tuo paradiso.’ …Sanctus…

“Stormi di corvi sciamano nel cielo. Il mio primo fratello Albero di Fuoco li ha visti.”

“Insieme ad avvoltoi ed uccelli di luce si stanno cibando di morte… in quantità.”

“Vuol dire che la morte è giunta da almeno un giorno.”

“Vuol dire che tra un giorno, Nuvola Veloce fratello mio, gli ‘altri’ arriveranno.”

“’Altri’ sono venuti e altri ancora ne verranno in seguito. Riceveranno morte come quella che hanno dato, come è già successo e succederà agli ‘altri’ che verranno. Avverti i fratelli, stanotte ci sarà il cambiamento.”

“Quando arriveranno gli ‘altri’.”

“Quando arriveranno gli ‘altri’, saremo pronti.”

L’accesso alla vallata era un passaggio di una decina di metri di larghezza tra due rocce scoscese e lisce come tagliate dalla scure di un gigante.

La colonna dei Conquistadores dovette restringersi ed allungarsi per poter percorrere quel centinaio di metri di tragitto, con i cavalieri disposti di cinque in cinque, affiancati in file dimezzate dietro il loro capitano, sempre in testa durante gli spostamenti insieme ai due vice e allo scudiero. Dietro di loro, con padre Ramon al fianco del conducente, a cassetta del primo carrozzone che conteneva le tende, avanzavano i carri da trasporto seguiti dai carri-gabbia per i cani. Legate all’ultimo carro le due file di prigionieri, una trentina, tra uomini per lavorare e donne per le esigenze dei militari. In ognuna delle due file, i prigionieri incappiati collegati l’uno all’altro con un’unica e lunga corda, oltre ad aver le mani bloccate dietro la schiena.

A chiusura stavano fanti e picchieri, con i primi incaricati al controllo degli indigeni, non tanto per evitare i tentativi di fuga ma per farli muovere a suon di frustate. In altre occasioni era successo che i più deboli crollassero, privi di forze o svenuti e non fermandosi la colonna per farli riposare restavano strangolati. A colpi di spada venivano staccati i corpi dalle teste, la corda doveva essere preservata intera, per eliminare l’ostacolo al proseguimento della marcia e in qualche caso le teste rimanevano incastrate nei nodi scorsoi e rimosse alla prima sosta utile.

Confluendo oltre la strettoia, si ritrovarono ad osservare davanti a loro una vallata a primo acchito immensa, ma che faceva supporre l’attimo seguente d’essere più ampia di quanto apparisse. La foresta compatta di alberi altissimi la ingigantiva quanto l’anello montuoso di colline la ridimensionava, e l’alquanto brulla spianata che li divideva da quell’enorme macchia verde dall’aspetto primordiale non riusciva a dare conferma delle dimensioni esatte di quel luogo.

Espinoza non diede ordine di fermarsi e la colonna, mano a mano che avanzava, allargava le sue maglie ricompattandosi nella solita formazione di spostamento. Dopo l’iniziale senso di smarrimento, calcolando a circa duemila passi la distanza dalla foresta, distesa davanti a loro per una larghezza di minimo quattro volte tanto, decise di portarsi fino ad almeno un centinaio di passi a ridosso dell’alta vegetazione. Intanto non poté fare a meno di notare quanta bellezza emanasse quello scorcio di natura apparentemente vergine all’umanità, di ascoltare rumori tra le fronde degli alberi di uccelli nascosti dal vociare tanto sconosciuto quanto melodico, di osservare minuscoli animali correre tra la quasi inesistente vegetazione sul terreno compatto con rapidità  così impressionante da risultare figure indistinte.

All’ordine di fermarsi i cavalieri, ora allineati in numero di dieci, rimasero in formazione rimandando l’ordine di voce in voce fino alle retrovie. Quando la carovana divenne un unico blocco statico il capitano ordinò di disporsi in accampamento, riservandosi di lasciare un minimo di riposo ai cavalli prima di inviare le squadre alla ricerca d’acqua.

Nel frattempo, padre Ramon era sceso dal suo carro andando direttamente da Espinoza che era già intento a sgranchirsi le gambe dopo almeno quattro ore in sella. - Questo posto è strano, capitano, non le sembra? - esordì il frate.

- In che senso padre? A prima vista non sembra che ci siano villaggi, magari all’interno ma ne dubito fortemente. Oserei quasi dire che nessuno ha mai messo piede in questo posto, forse è questa la stranezza? -

- Non lo so. È una sensazione… -. Mentre parlava con voce sommessa sapeva che stava mentendo a Espinoza e soprattutto a se stesso. Le parole dell’indio parevano essersi incancrenite nella sua mente come un colore nero indelebile su di una parete bianchissima. ‘Apri il tuo cuore uomo bianco. Oltre la prossima collina ti attende il tuo paradiso.’ Lettere cubitali palpitavano di vita propria simili ad un cuore impazzito. Non riusciva a distogliere il pensiero per quanto si sforzasse e un senso d’angoscia gli si stava amplificando dentro in modo esponenziale. Paura? Sì, affermò tre sé. Più che paura.

- Come padre? Non ho compreso. -

- Nulla. - continuò a mentire.

- Che succede? - sbottò contrariato Espinoza sentendo un tramestio confuso alle sue spalle. Voltandosi iniziò a preoccuparsi sentendo che qualcosa non andava. I cavalli nitrivano stranamente e scalpitavano eccitati, incuranti dei richiami dei loro cavalieri. Tra gli uomini, parlottii nervosi trasudavano l’agitazione crescente di tutto il gruppo dei Conquistadores. I cani, nelle retrovie dentro i carri-gabbia, iniziavano a guaire in toni strazianti e lunghi ululati.

- Fate star buone quelle bestie. - urlò - Subito. - Si avviò verso i suoi secondi a passo lesto e con una buona dose di preoccupazione per quell’insolita situazione. - Fateli posizionare tutti quanti compatti e disponete i picchieri in cerchio attorno. Metà fanti in retrovia e il resto alle spalle dei cavalieri. Delgado! -

- Sì, capitano. -  Questi rispose solerte e con un passo avanti gli fu a ridosso a non più di due passi.

- Delgado. Due pattuglie a percorrere il limitare del bosco da ambo le parti. Il resto dei cavalieri pronti. Non so cosa stia succedendo ma é meglio essere pronti. -

- Sì, capitano. Subito. - Si volse e di corsa arrivò al suo cavallo e vi montò d’un balzo,  s’accostò ai cavalieri più vicini e in pochi secondi otto di loro partirono, quattro verso destra e quattro dalla parte opposta, tutti verso la boscaglia. 

Intanto Espinoza stava già tornando verso padre Ramon e in pochi e rapidi passi lo raggiunse. - Padre, è meglio… - non iniziò quasi la frase allorché il nitrire impaurito di alcuni cavalli imbizzarriti lo bloccò facendo trasalire anche il frate. Erano i cavalli delle pattuglie, si erano fermati poco avanti e si rifiutavano di avanzare, impennandosi alle percosse dei loro cavalieri per farli proseguire. Guardando avanti ne comprese il motivo.

Tutti avevano visto e compreso, uomini e animali. Un silenzio innaturale era sceso, completo come la rassegnazione più cupa, assoluto come il nulla più vuoto, quando la totalità degli esseri viventi, dal primo degli uomini all’ultimo e più minuscolo degli insetti, se ne resero conto. Era l’unica cosa da fare. L’unica che si poteva fare. Silenzio.

Una figura contorta, enorme quanto anomala, esplicitamente infernale ed assolutamente aliena, era ferma a breve distanza dal limite del bosco, proprio lì davanti ai loro occhi, catalizzando come un potente magnete la loro completa attenzione. 

Forse era uscita dal bosco, forse era scaturita da sotto i loro piedi, forse aveva attraversato un varco da un qualche infero maledetto o forse era apparsa dal nulla. Non importava comunque, era lì e li costringeva a guardare, ammutoliti.

Tutti dovettero obbligatoriamente osservare quell’essere. Notare la sua stazza elefantesca, in uno scurissimo corpo mostruoso che ricordava vagamente un lupo nella sua espressione di forza efferata, vagamente un uomo nella sua intimidatoria e superiore posizione eretta. Sei arti possenti, quattro superiori, grossi come rami di quercia ed una testa enorme da canide selvatico su di un collo inesistente. Una miriade di denti come coltelli affilati, bianchi e inquietantemente lucenti, sottostanti ad enormi bulbi oculari così arrossati da parere fuochi accesi direttamente alimentati dall’abisso. Come di vita propria, peli grossi come chiodi lo ricoprivano, muovendosi in preda ad elettricità statica o a qualcos’altro, ricordando matasse di vermi in un cadavere in putrefazione.

Tutti dovettero prendere atto di qual era il proprio immediato futuro, senza via di scampo, senza possibilità di scelta. Silenzio. 

Solo il vento scivolava lento tra il fogliame ed ora un lieve e sinistro fruscio,  pesantemente  dilatato da quella mancanza di rumore, percorreva tutta la valle ricordando un lugubre e malnato suono di morte.

Il diabolico frastuono di roccia franata volò in un attimo attraverso le menti di tutti, distogliendoli per quell’attimo da quella forma di dominio indotto, comunicando loro che la valle, ora, non aveva più uscite e confermandogli che non era il vento che con i rami degli alberi accordava note di morte, ma era la morte, che usava il vento intonando la sua macabra melodia in un preludio insopportabilmente fatale. Annunciava la fine. 

Un ululato sovrumano potente come un tuono, spaccò l’aria come un terremoto. Era l’essere, ricordava loro che era sempre presente.

Un altro ululato simile al primo giunse in risposta. Un secondo, un terzo, poi un altro e un altro ancora. Ora sembrava non dovessero più finire, come una eco infinita gli ululati si susseguivano e ad ognuno corrispondeva l’apparizione di un essere identico all’originario. In poco tempo i Conquistadores erano circondati da un’orda indefinita di titanici uomini-lupo. La vallata sembrava troppo piccola per poterli contenere tutti.

D’un tratto ricadde il silenzio. Il vento ebbe un’impennata di moto nella sua indifferenza, similmente ad un segnale di via.

Padre Ramon era caduto in ginocchio, aveva incrociato le mani, chiuso gli occhi. La sua bocca, faticosamente e tremando, riuscì ad aprirsi ed un filo d’aria si fece strada dando luogo a poche, ultime, recalcitranti parole. - In… nomine… Patris… 

Nota: La realtà travalica la fantasia, e nella prima parte di questo racconto horror non ho dovuto affaticarmi più di tanto ad inventare. Mi è bastato romanzare su alcune note, documentate, tratte da  ‘Il libro nero del cristianesimo’ (di Jacopo Fo, Sergio Tomat, Laura Malucelli).

MARCO MILANI

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